The Replacements
Let It Be
“...We're gettin no place as quick as we know how, we're gettin' nowhere what will we do now?“
(“...Non stiamo andando da nessuna parte, che facciamo adesso?”)
Sono le profetiche parole che chiudono l’ultimo brano di “Hootenanny”, e la risposta fu nientemeno che “Let It Be”, il capolavoro della loro vita.
Se “Hootenanny”, dal punto di vista musicale, aveva creato un profondo solco tra i Replacements e tutto il resto delle band (veramente) indipendenti di quegli anni, “Let It Be” riuscì, per la prima (e forse unica) volta, a portare un gruppo di quell'ondata indie, a sfiorare il tetto del mondo. Dopo “Let it Be”, infatti, Westerberg e soci firmarono per una major (la Sire Record) e per un breve periodo sembrarono ad un passo dalla decisiva consacrazione, ma come un tema ricorrente nella loro vita, questa sfuggì quasi per caso, per distrazione forse, ed ai nostri non importò neanche troppo.
Quel che rimase però, di quei pochi ed irripetibili anni, furono dischi indimenticabili ed un capolavoro su tutti, “Let It Be” per l’appunto.
Da perfetti beoni quali erano, “I Sostituti” scelsero di chiamare il loro lavoro più importante come l’ultimo disco del gruppo più famoso del pianeta e poi gli affibbiarono una copertina che più improbabile non si potrebbe: i 4 sono sul tetto di casa Stinson, dove tutto iniziò nel 1979. C. Mars, il più serio, guarda in macchina; Bob Stinson ha la faccia colpevole di chi sta facendo qualcosa di male, mentre suo fratellino Tommy sembra essersi appena svegliato; Paul, il più tenebroso, è l’unico voltato in un'altra direzione, forse perché sarà il solo ad andare oltre i Replacements…
Era il 1984 e nella provincia americana da qualche anno era partita una rivoluzione silenziosa e rumorosissima. I Black Flag, fondando la SST Records nel 1977 e inventando di fatto l'hardcore, avevano innescato una scintilla irrefrenabile. Una miriade di gruppi, giurando sul credo DIY (do it yourself), vi accorsero, dai Minutemen ai Mission of Burma, dai Minor Threat ai Fugazi fino ai nostri Replacements, anche se a dire il vero Westerberg e soci ci si trovarono più per necessità che per convinzione. Infatti i Replacements poco avevano a che fare sia musicalmente che ideologicamente con i gruppi sopraccitati: il loro sound, per quanto fracassone e grezzo, non aderì mai all’hardcore e la loro politica economica fu dettata esclusivamente dal loro status sociale e non da un codice etico, come quello dei Minutemen o dei Fugazi. Appena poterono, “I Sostituti” infatti si affidarono immediatamente ad un produttore (Jesperson) e ad un roadie (Sullivan) che, per quanto improbabili potessero essere, destarono l’invidia dei concittadini Husker Du, da sempre affetti da un complesso di superiorità nei confronti dei Replacements.
E la distanza dal movimento divenne assoluta con l’uscita di “Let It Be”. Mentre gli Husker Du se ne uscivano col capolavoro assoluto dell’hardcore, “Zen Arcade”, i Minutemen portavano a compimento il loro concetto di Jam Econo con l’imprescindibile “Double Nickels on the Dime” ed i Black Flag viravano verso l’heavy con “Slip It In”, i Replacements davano alle stampe un disco che ad oggi possiamo ben definire “classico”.
Già, classico, perché in “Let It Be” troviamo tanto i Rolling Stones quanto Bob Dylan, tanto David Bowie quanto l’immancabile Joe Strummer. Paul getta una volta per tutte la maschera da beone, che tanto l’aveva protetto da un possibile (in)successo, e si scopre incredibilmente grande cantautore. Lo stesso Bob, dapprima spiazzato dall’ ”imborghesimento” dell’amico, si ripulisce e scopre di avere nelle sue corde assoli degni del miglior Harrison, il resto del gruppo non deve far altro che seguirli.
Le asprezze e le incertezze dei primi due album lasciano spazio ad un suono deciso, ma non per questo meno immediato e genuino. Nascono in sequenza pezzi dalla melodia cristallina come l’iniziale “I will dare”, una cavalcata fulminante che attesta la coppia Westerberg-Stinson alle più note Lennon-Mccartney e Jagger-Richards. Si prosegue con “Favorite Thing”, altro fulmineo pezzo di appena due minuti, dove i nostri sintetizzano al meglio la propria attitudine punk a sorprendenti aperture melodiche. La successiva “We’re Comin Out” riporta per un attimo “I Sostituti” in territorio hardcore, un hardcore ovviamente molto Replacements’ way…
I toni si raddolciscono con “Tommy gets his tonsils out”, forse la parodia definitiva al movimento hardcore.
A sospesa arriva il primo pezzo del nuovo Paul: “Androgynous” è infatti un’elegante ballata per piano e voce dove Westerberg gioca ancora con le sue insicurezze improvvisandosi un credibile David Bowie. La cover di “Black Diamond” è invece il classico esempio del nuovo corso dei Replacements, dove i nostri si misurano col sound di band classiche come i Kiss.
Parte un arpeggio scintillante e Paul attacca con la sua voce roca e graffiante. E' “Unsatisfied”, una ballata che possiamo solo definire senza tempo, dove il genio di Westerberg si palesa in tutto il suo splendore.
“Seen your video”, atipico pezzo semistrumentale, è il brano che meglio racchiude la natura dei Replacemnets: la chitarra di Stinson stenta a partire, balbetta, sembra non trovare una via poi improvvisamente accelera, vola e ricama trame di perfezione per tornare velocemente in un vicolo cieco fino all'ancora, rappresentata dal cantato di Paul. Arte pura e grezza, sputata nel momento stesso in cui è concepita.
Attraverso la parentesi glam di “Gary's Got a Boner" si arriva all'ennesimo capolavoro del disco,“Sixteen Blue”. Per l'occasione Paul decide di lacerarci l'anima regalandoci un’interpretazione inarrivabile, sorretta dai soliti ricami di Bob che chiude il brano con un assolo degno del miglior Neil Young.
In chiusura, la follia distorta e stonata di “Answering Machine”ci ricorda che, seppur in stato di grazia, la coppia Westerberg-Stinson fa pur sempre parte della classe operaia del rock.
“Penso si possa dire che siamo una sciatta band di Rock'n'roll, che cerca di stare a cavallo tra commedia e tragedia”. Parola di Paul Westerberg.
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