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R Recensione

7/10

The Zen Circus

Canzoni contro la Natura

Gli Zen Circus sono una delle band più interessanti del rock italiano contemporaneo, una band che da un lato ha saputo svecchiare la canzone d’autore, e dall’altro ha inserito nel rock temi e contenuti che da tempo latitavano. Per il nuovo lavoro, l’ottavo della carriera, le attese erano alte, soprattutto dopo la Targa Tenco ricevuta dal cantante Appino lo scorso anno per il suo disco d’esordio. Questo Canzoni contro la natura, disco completamente autoprodotto dalla band, non è forse il capolavoro che molti si aspettavano, non colpisce al primo colpo, come alcuni dischi precedenti, ma cresce lentamente ascolto dopo ascolto. Segno che ci troviamo davanti ad un lavoro forse meno impulsivo ma più ragionato, pensato attentamente. 

Il brano d’apertura, e primo singolo estratto, Viva, mantiene le caratteristiche tipiche della band: ritmica veloce, melodia orecchiabile, e quella zampata graffiante che mettere alla berlina i vizi degli italiani con poche parole, colpendo senza timore a destra e a manca. Il trio si permette il lusso di citare L’antisociale di Guccini, e chiude il brano con un elenco di “viva” in cui siamo dentro tutti, molto alla Rino Gaetano.   

Un altro collega esplicitamente citato è Ligabue, preso un po’ in giro per le sue Certe notti passate nei bar a divertirsi. In Postumia le notti raccontate sono quelle di chi nei bar ci lavora, con contratti precari e sottopagati, e si prefigura una società al limite dello scontro generazionale: da una parte anziani che hanno costruito un paese partendo dalla miseria del dopoguerra, dall’altro giovani spaesati e senza futuro che chiedono nonno, è questo il futuro che sognavi te?

L’analisi della realtà è sempre sotto i riflettori della band, però qui c’è uno scatto in avanti. Non è più il nostro paese ad essere sotto tiro, ma l’uomo nella sua essenza. Ne sono esempi perfetti i due brani più riusciti del disco, Canzone contro la natura e Albero di tiglio. La title track, il cui titolo è ispirato ad una frase di Giuseppe Ungaretti, è un rock sostenuto, con basso e batteria incalzanti, in cui si descrive la costante battaglia dell’uomo contro la natura, e alla fine contro se stesso, nella rincorsa verso un progresso senza metà (E quando l'ultimo supermercato sarà vuoto, E la tecnologia ci servirà per fare un fuoco): in questo modo l’Uomo paga il pegno per la sua libertà (Quella che davvero fa paura, è una croce che porti addosso da un po’, dal momento esatto in cui hai messo piede sulla terra). Albero di tiglio è un brano intenso dal testo profondo, in cui gli Zen Circus si calano nei panni di un Dio che si manifesta sotto forma di albero anziché di uomo, e che condanna senza appello una società in cui il marito picchia la moglie, la madre sopprime il figlio, il vescovo ladro e corrotto, e il sindaco farabutto. Una società abbruttita, dove nessuno regala niente (Mi son ritrovato vivo), e soprattutto dove non sembra esserci speranza per un futuro migliore, e anche cercare una terra promessa può sembrare del tutto inutile (Vai vai vai!).

Non scappano a questa sorta di condanna i personaggi di due brani più cantautorali, L’anarchico e il generale, una classica ballata che richiama De André per la costruzione ed il testo, e Dalì, una rock ballad dai sapori beat anni sessanta, ritratto del fallimento di una vita, quella di un senza tetto, consumata tra sacrifici e anarchia, anche questa molto vicina alla sensibilità del cantautore genovese. Se questo è il mondo prodotto da duemila anni di civiltà, una società dove i trentenni vestono come i ventenni, ed i ventenni spacciano ai trentenni, e le trentenni scopano coi diciottenni, e i quarantenni sognano le quindicenni, dove le città sono una tristezza cosmica, e dove cani rabbiosi qualche ratto qua e là, questo rimane di tutta la civiltà, allora davvero sembra non esserci una via di fuga.

No Way (navigare in questo mare di merda da ingoiare, non so dove andrò la strada è tutto quello che non ho) si chiude con un “no way” che ricorda molto il No Future dei Sex Pistols. Nell’eterna battaglia tra uomo e natura, gli Zen Circus ancora una volta mettono a nudo la stupidità dell’uomo (l’unico essere vivente del pianeta che arriva ad odiare la propria specie) ed il suo conformismo, come sempre provocando ma senza indicare soluzioni, se non evidenziando che la radice dei nostri mali è dentro noi stessi.

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Voto degli utenti: 4,9/10 in media su 4 voti.
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ThirdEye 2,5/10

C Commenti

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Marco_Biasio (ha votato 5,5 questo disco) alle 15:26 del 11 febbraio 2014 ha scritto:

Zen Circus plays Zen Circus. Piuttosto medio nelle musiche, decisamente sottotono nei testi (lontanissimi dall'acume di Nati Per Subire). Di fatto si sente che questo disco è stato scritto e suonato troppo in fretta. Va bene per chi non li conosce, come approccio. Per tutti gli altri no. Salvo solo Dalì. Bruttissima la decalcomania deandreiana de L'anarchico e il generale.

ThirdEye (ha votato 2,5 questo disco) alle 22:03 del 11 febbraio 2014 ha scritto:

alle mie orecchie sgradevoli...alla mia vista pure peggio.

hiperwlt alle 23:17 del 11 febbraio 2014 ha scritto:

Ascoltato una volta, ma la sensazione (specie sui tempi) è quella descritta da Marco. In più, testi (di solito punto di forza) adagiati su troppa retorica più che trasportati dall'acume nella critica sociale (questa, che teneva bene, appunto, in "Nati per Subire"); che poi era un po' il limite mostrato in molti passaggi dell'album solista di Appino. Ripasso

bonnell (ha votato 4 questo disco) alle 11:04 del 12 febbraio 2014 ha scritto:

Forse proprio "sgradevoli" è il termine esatto, brutte musiche, testi, mood, voce, copertina, tutto.