R Recensione

7/10

Willie Nile

American Ride

Se avete un cuore che batte al ritmo di rock’n’roll, salite a bordo della Chevy guidata da Willie Nile , il piccoletto frenetico di New York, per un viaggio a palla nel cuore della più grande fabbrica di musica e sogni . La colonna sonora che esce dall’autoradio sul cruscotto promette un concentrato di storia del rock costruito sull’immaginario asse che collega Elvis, Dylan, i Creedence ed i Rolling Stones ai Clash ed a Springsteen , e le chitarre non vi daranno neanche un momento di tregua.

Lo stile di guida del conduttore in questo viaggio prevede alta  velocità di crociera e non ci sarebbe da meravigliarsi a sentire la sirena di qualche  patrol man  attaccata alla nostra ruota.

Sentite come parte con “ This is our time” e “Life on bleeker street” , due colpi da knock out con ritmo sparato a mille , le chitarre quasi punk ed i cori a moltiplicare le parti vocali. Anche quando prova a calmarsi con una ballad, come la itinerante “American ride”, nelle corde di Willie si coglie uno scalpitante nervosismo che concentra musica e parole in una formula tanto semplice quanto efficace. Tanto ritmo, pochi assoli, riff a presa immediata  ed una voce che trascina e seduce . Quanto basta ad accendere una immaginaria  air guitar fra le mani di ogni ascoltatore che abbia un briciolo di sensibilità per queste vicende.

 “If i ever see the light” riprende i ricami di Roy Bittan al pianoforte,  e per una volta Willie accarezza la prospettiva, un tempo non troppo stralunata, di un destino simile al famoso collega  del New Jersey, mentre nelle uniche due mid tempo, “She’s got my heart” e la splendida, pianistica , “The crossing”,  la sua voce emana i noti riflessi dylaniani e la sosta non potrebbe essere più affascinante.

Ma il viaggio  è lungo e variegato: prima di  un numero bluesy e jazzato come “Say Hey” e delle venature soul di  “Sunrise in New york city”, c’è “God laughs” in odore di Joe Strummer,   la martellante “People who died” , una cover di Jim Carrol  sparata a mille, “Holy war”, con un sincopato riff di  chitarre taglienti che sembra preso a prestito dal Dylan degli anni ottanta.

Il percorso si chiude, come è giusto, con il ritorno a casa e l’affermazione su un  ritmo country che “There is no place like home”, ma, come nei migliori concerti, alla fine non mancano le sorprese. C’è infatti il dub’n roll di “Occupy” in evidente omaggio al movimento anti wall street , una versione demo della ballad “The motel life”, ancora Dylan a far capolino,  ed una riedizione di “One guitar”, già presente sull’ultimo lavoro di Willie Nile, “The innocent ones”, che contiene una delle migliori descrizioni del suo lavoro: “I’m a soldier, marching in an army, got no guns to shoot, but what i got is only one guitar

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