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7/10

Exit Verse

Exit Verse

Vi avevamo raccontato di Exit Verse qualche tempo fa, in una nostra intervista a Geoff Farina, leader di questo nuovo progetto a tre, partito con John Dugan alla batteria (Chisel, Edsel) e Pete Croke  al basso (Brokeback, Tight Phantoms), nel frattempo proseguito con l’avvicendamento di Chris Dye alla batteria.

Geoff Farina, già leader dei leggendari Karate, da tempo ormai (dal 2005, per la precisione) aveva quasi del tutto abbandonato la chitarra elettrica, anche a causa di fastidiosi problemi all’udito, per dedicarsi a numerose altre avventure di aria prettamente jazz, avant-jazz, folk-rock e blues, inclusi i nostri Ardecore.

Il ritorno alla musica “tosta” quindi, non poteva che essere salutato con attenzione, con quella scimmiesca curiosità di verificare quanto e cosa del passato fosse rimasto nel suono di Farina. Il primo brano lanciato in anteprima, Seeds, subito liberò la tentazione di sottolineare una forte somiglianza con il periodo d’oro dei Karate. Lo stesso Farina c’aveva confermato che in quel pezzo (ma solo in quello, ci disse), c’era una forte impronta del sound di quel tempo. Riflesso incondizionato però, non voluto, semplice corollario di un naturale quanto banale dato di fatto: Geoff Farina alla voce e alla chitarra elettrica, un trio rock dalle movenze lente e rudi. Insomma, come dire, ça va sans dire.

Il resto dell’album, tutto su livelli buoni, è invece una chiara e viscerale virata verso un rock blues classico, dal suono forte, lineare e pulito, come sono potenzialmente bravi tutti a fare. Il rock angloamericano degli anni ‘70 (gli Stones, Big Stars, ZZ Top), il rock americano degli anni 80 (Dream Syndicate), il rock americano dei giorni nostri (chenesò, i Baseball Project (?)). L’ansia, la rabbia, la sperimentazione, l’eccessiva elucubrazione mentale e sonora dei tempi d’oro, sono qui dei lontani ricordi.

Prendiamo ad esempio Fiddle & Flame, emblema secondo me di questo nuovo corso nella carriera di Geoff Farina e soci (ma discorso simile varrebbe pure per Under the satellite, Chrome, Perfect Hair). Rock blues tiratissimo, veloce, chiaro, fresco, grintoso, ammiccante, di quelli che la tettona americana, tutta tatuata, leggermente in carne, balla nel pub della periferia rozza in preda ai fumi dell’alcol. Suoni che non t’aspetteresti da uno che, a ridosso del 2000, ha destrutturato i codici musicali del rock (e del jazz, e dell’hardcore), arrivando a condensare in un ep, Cancel/Sing, la perfezione, la summa, di quello slowcore di respiro jazz di cui i Karate furono fieri portabandiera . Momenti più riflessivi, ma mai troppo in realtà, sono poi The Bond e Silver Stars.

Non è più quindi la testa a comandare, ma il cuore e l’istinto delle membra asservite alle tentazioni terrene. Scientemente questa volta, come ci raccontava lo stesso Farina, spiegandoci la sua attuale volontà di ricercare, con gli Exit Verse, il divertimento puro, quello che viene fuori quando puoi permetterti di staccare lo sguardo dalla tastiera della chitarra e godere del suono, del ritmo incalzante, di scherzare, mentre suoni, di fare tutto quello che il cervello ti richiede quando non vuole pensarci troppo sopra ma vuole solo suonare e ascoltare della buona musica. Quella che, almeno questa stavolta, non hanno inventato loro, ma che se sono loro a fare può pure essere, in parte, un’altra musica.

Un dieci (10) a Farina per aver ripreso la chitarra elettrica, un otto (8) per il divertimento, quello loro e il nostro, un cinque (5) per l’originalità. Un più che dignitoso sette (7) al disco d’esordio, omonimo, degli Exit Verse

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