The Black Keys
El Camino
La classe operaia (qualche volta) va in paradiso (e non solo in cassa integrazione, Marchionne permettendo). Alzi la mano chi, dieci anni fa, avrebbe mai vaticinato per questa piccola band di Akron (OH), dalle scarpe grosse e dal cervello fino (musicalmente parlando, s’intende) un futuro come quello che stanno vivendo oggi. Nessuno, nemmeno loro stessi probabilmente. Me li ricordo bene ancora nel 2003, quando i power duo erano parecchio di moda e i White Stripes impazzavano nelle classifiche di tutto il mondo, intervistati su un noto mensile musicale italiano, dichiararsi completamente estranei a quanto stava succedendo in giro, ad ogni ipotetica scena alternativa, ai gruppi nuovi, persino agli sviluppi tecnologici in corso (internet, gli mp3, i social network, ecc. ecc.). Loro vivevano nel passato e stavano bene così. Lì c’era tutto ciò di cui avevano bisogno per sfamare quella strana creatura chiamata musica: i vinili sfrigolanti con la voce rinsecchita di vecchi bluesman misconosciuti o ritrovati (tipo il mitico Junior Kimbrough), le palificazioni elettriche erette da Muddy e compagnia nel Nord-Est, massimo della modernità i Rolling Stones, che a detta di Auerbach e Carney erano come il pane quotidiano, anzi un pasto completo. Poi dopo tre album potenti, viscerali, abrasivi, qualcosa è cambiato. Non tanto in loro, quanto intorno a loro. Come quei pugili talmente presi da quello che stanno facendo, dai pugni che stanno menando, che quasi non si rendono conto di essere rimasti i soli in piedi sul ring: i vincitori. Si, perché mentre le mode passavano e si rincorrevano, i gruppi di successo si scioglievano o duravano solo lo spazio di un paio di stagioni, il grande pubblico cominciava lentamente ad accorgersi che c’erano anche loro: “però, spaccano di brutto questi Black Keys!” Prima la colonna sonora di “I’m Not There” (che quando ti chiamano da Hollywood qualcosa in pentola bolle sempre), quindi il successo del side-project (rap-blues) Blakroc e, last but not least, il felice sodalizio con Danger Mouse, un tipo fico di New York, uno che ci sta dentro, al passo coi tempi, uno che più diverso dai due alacri operai di Akron, con i loro antiquati attrezzi ben oliati e magnificamente funzionanti, non te lo potevi immaginare ma che, invece, avrebbe funzionato alla grande. E poi…Bam (“dritto a canestro!”, come diceva Peter Griffin nella sua persecutoria imitazione di Jackie Gleason)! Appena un anno fa l’irresistibile “Brothers”: numero 3 a Billboard, circa 840mila copie vendute (in tempo di crisi e compagnia bella!), tre Grammy Award e un buon piazzamento nelle classifiche di fine anno delle principali riviste e webzine del pianeta (inclusa la nostra).
Le cose sono cambiate intorno ai Black Keys, si diceva, gli hanno forzato la mano, costretti a venire allo scoperto. E i due si sono adeguati, cercando di non perdere la bussola, seguendo le coordinate auree del loro sound nato vecchio e venuto al mondo per invecchiare, bene, come il buon vino. Certo il compito del successore di “Brothers” si presentava abbastanza arduo: essere all’altezza delle aspettative discografiche e (volenti o nolenti) mainstream senza tradire la fiducia di chi ha sempre apprezzato quel loro genuino fregarsene di ciò che va per la maggiore e fa tendenza. Tuttavia, il lavoro umile e sodo non ha mai spaventato la premiata ditta Auerbach & Carney, sempre spalleggiati dal buon Danger qui coautore di tutti pezzi, e ancora una volta, in tempi in cui molti (troppi) pensano alla forma e si dimenticano della sostanza, è la qualità della scrittura a fare la differenza. “El Camino” accentua ancora di più l’attitudine pop e groovymutuata dal disco precedente, allargando a poco a poco il compasso stilistico del duo, grazie anche ad un sound design dall’invidiabile tocco vintage in miracoloso cortocircuito fra classico e moderno, fra catchy e prosaico.
Così se un super-singolo come l’irrefrenabile “Lonely Boy”, jump-blues dalla ruvida cromatura garage (ballabile, per usare un eufemismo: sfido chiunque a rimanere perfettamente immobile mentre l’ascolta), farebbe venire l’acquolina in bocca ad alcuni fra i migliori gruppi rock passati, presenti e futuri, subito doppiato dal clappin’ e dal tiro impettito (quasi Motown) di “Dead And Gone” e “Glad On The Ceiling”; in “Run Right Back” e “Hall Of The Season” inalberano una paio di tormentoni chitarristici che fanno pensare a dei redivivi White Stripes, mapiù rustici e con più soul in corpo. E non mancano le variazioni, anche piuttosto significative, sul loro tema preferito: “Little Black Submarines” incendia la miccia folkish ed elegiaca della parte iniziale acustica con uno stacco furibondo in cui Carney pesta il rullante come se fosse la faccia di un rivale in amore e la chitarra di Auerbach inanella un assolo “minimalista” fra i più memorabili della sua carriera; “Sister” si fionda su un giro funky (quasi disco) scolpito dalla chitarra sbrecciata, imitata dalle stilettate altrettanto funk di “Mind Eraser” e “Stop Stop” , mentre “Nova Baby”, dove le tastiere (suonate da tale Brian Burton che poi sarebbe sempre lui: Danger Mouse) prendono nettamente il sopravvento sulla chitarra, spiazza i più con una sorta di synth-rock dal sapore quasi wave. Dimostrando ancora una volta ai più scettici e ai profeti del copia e incolla e della musica “sintetica” che si può fare un rock analogico e strumentale (ma con un produttore-coautore svezzato dall’elettronica) al passo coi tempi (o fregandosene del tutto esserlo). Alla faccia dei luoghi comuni.
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