Creedence Clearwater Revival
Pendulum
Formazione di enorme successo commerciale a cavallo tra anni sessanta e settanta, i Creedence sono originari della baia di San Francisco, uno degli ombelichi d’America nel quale riescono a confluire ed incrociarsi molteplici popolazioni, culture e tendenze grazie ad una particolare e diffusa apertura mentale, permeata da una tolleranza e una flessibilità del tutto sconosciute al resto di questo paese fra i più bigotti e ottusi al mondo.
Questa latitanza di preconcetti e di rigidità culturale ha reso possibile la nascita in loco di gruppi come questo, vera miscellanea di tutta una serie di tendenze musicali (in ordine di importanza: soul, rock’n’roll, country, blues, psichedelia) libere di essere frullate insieme in una formula così accattivante e accessibile da diventare una forma peculiare, inconfondibile, di pop, cioè di musica per le masse, conservando però l’appeal per gli appassionati di musica rock, o almeno per buona parte di essi.
Mentre le composizioni del gruppo ed il suo stesso suono sono quindi il risultato di un’addizione di diverse voglie e passioni, per quanto riguarda il canto non v’è dubbio che la fonte d’ispirazione sia unica: il leader John Fogerty ha imparato a cantare ascoltando i grandi fratelli neri del rhythm & blues e la sua voce magnificamente negroide, rapportata ad un aspetto che più yankee non si può col caschetto di capelli biondi alla Robert Redford con corollario di camicioni a quadri, jeans e camperos, costituisce la forza assoluta, oltreché la curiosa nota bizzarra, dei Creedence.
John Fogerty è la guida incontrastata del gruppo, compone tutto lui, suona le chitarre principali l’organo ed i sassofoni, canta con naturale forza e calore, accompagnato dal fratello alla chitarra ritmica (mai al proscenio, in un ruolo di mero contributo al “riempimento” del panorama sonoro senza il minimo spunto personale) e da una onesta ma solida (specialmente per quanto riguarda la batteria) sezione ritmica.
Voce strepitosa, mix sonoro ben riconoscibile e notevole acume compositivo fanno quindi la differenza ed in questo “Pendulum” vi si aggiungono una produzione pulita e compatta, un suono caldo e coinvolgente con una ripresa degli strumenti efficacissimo nella sua semplicità e naturalezza.
La batteria ad esempio, colpita con potenza e semplice efficacia dal barbuto “Cosmo” Clifford, risuona gagliarda in tutti i suoi componenti (perfino le meccaniche), mentre incredibile è la resa dell’organo Hammond, ripreso con una qualità tra le migliori che io conosca: Fogerty lo suona in maniera semplice ed essenziale, da chitarrista, ma il suo timbro inimitabile contribuisce a rendere sublimi le due ballate “It’s Just A Thought” e “(Whish i Could) Hideaway” nelle quali anche la voce di John stesso supera se stessa.
Insieme alle tracce più semplici e commerciali come la celeberrima “Have You Ever Seen The Rain” (superclassico evergreen se ce ne è uno, passaggio d’obbligo per strimpellatori alle prime armi e pianobaristi vari) ed i compatti rock’n’roll “Hey Tonight” (nel quale le voci armonizzate e potenti di Fogerty creano un vero muro di suono) e “Molina” (divertita dal sax e da un falso stop finale, con ripresa strumentale), trovano posto nell’album brani di più ampio respiro come l’iniziale “Pagan Baby”, nella quale John urla il titolo con una grinta ed una sonorità da far accapponare la pelle, accompagnandosi col caratteristico strumming metallico e brillante reso dalla chitarra Rickembacker. Vi è una lunga coda strumentale risolta con efficaci, semplici assoli di chitarra e da alcuni urlacci del cantante negli stacchi finali da fare invidia a James Brown.
Altra notevole e abbondante composizione è il Rhythm & Blues “Born To Move”, arrangiato benissimo con un riff discendente che porta a strofe piene di funky, grande musica da ballare. Anche in questo caso vi è una coda strumentale, molto più tranquilla e piuttosto minimalista, inaugurata dal basso che resta solo per alcune battute e poi viene raggiunto dall’Hammond per una jam notturna e fumosa, alla Jimmy Smith se qualcuno lo avesse presente. Suoni grandiosi, calore e “anima” a profusione.
La chiusura del disco, piuttosto anacronistica, è affidata ad uno strumentale progressive-psichedelico! “Rude Awakening # 2” esordisce con una progressione di chitarra per poi perdersi in nenie tastieristiche e nastri al contrario, nella migliore tradizione dei fumatori d’erba e consumatori di L.S.D. d’altronde ben presenti al tempo in zona.
Mai avuto dubbi che sia questo il lavoro migliore dei Creedence, anche se ciò mi mette in minoranza: a mio giudizio vi sono maggiore qualità di suono e varietà di ispirazione rispetto al passato e un efficace allargamento della strumentazione, uniti alla classica presenza di canzoncine irresistibili e impossibili da evitare. L’ultimo loro grande disco ed il migliore, prima della rapidissima decadenza col successivo “Mardì Gras” e il definitivo scioglimento del gruppo.
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