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R Recensione

6,5/10

Dan Auerbach

Waiting On A Song

Fatta eccezione per i zibaldoni prog e le operette hip hop di nuova generazione, era da tempo immemore che non mi capitava di imbattermi in un disco rock letteralmente intessuto di collaborazioni e comprimari illustri. Non che ci sia da stupirsene: ben pochi ormai hanno spalle abbastanza larghe per reggere il peso e le responsabilità di un processo lavorativo come quelli di una volta (benvenuta senescenza). Dan Auerbach, una delle ultime rockstar della sua generazione, il genietto di Akron e l’innamorato di Nashville, il romantico soulman bianco e il sudicio adoratore della pentatonica, il sanguigno songwriter e la mente dei Black Keys, non si pone troppi problemi: tant’è che per “Waiting On A Song”, seconda uscita solista a otto anni da “Keep It Hid”, fa le cose in grande ed assolda una batteria di musicisti impressionante, la crema del country e dell’r’n’r made in Tennessee (il solo Pat McLaughlin, nome in verità relativamente conosciuto dalle nostre parti, cofirma otto dei dieci pezzi in scaletta), scegliendo poi di non far seguire alcun tour promozionale in supporto al disco.

Apparirà del tutto evidente che una simile impostazione riflette la volontà di produrre un album privo di sovrastrutture, esterno al flusso temporale, impermeabile alle mode del momento: un baluardo di autentico e coriaceo conservatorismo che fa a pugni con la realtà mobile in cui siamo immersi. Ogni velleitario discorso politico, tuttavia, è destinato a cadere nel momento in cui si comprende che il solo, nobile scopo di “Waiting On A Song” è, per l’appunto, quello estetico: la raccolta di canzoni genuinamente belle che possano suonare come instant classic già a partire dalla prima riproduzione. Missione ambiziosa, specie se condotta su durate assai ristrette (mai sopra i quattro minuti per brano), ma che si può dire sostanzialmente riuscita: dal country-roots raccolto della title track agli irresistibili singalong di una “Shine On Me” che sembra ricalcare parte delle progressioni di “Sultans Of Swing” (e difatti, tra il vibrafono di Bobby Wood e i bassi rotondi di Dave Roe, c’è proprio la chitarra aggiuntiva di Mark Knopfler), dall’r’n’b maliziosissimo di “Cherrybomb” agli handclappin’ di “Livin’ In Sin” (americana con un senso armonico vicino al “White Album”), dal retro-soul di “Malibu Man” (ottoni e archi sullo sfondo, come delle Ronettes post-maggio 1965) ad una “Stand By My Girl” il cui riff di piano deve più di qualcosa a “We Are Family” delle Sister Sledge, dal blues in candeggina di “Undertow” al folk gentile di “Never In My Wildest Dreams”.

I primi ascolti sono mossi da curiosità: i secondi, motivati dall’ammirazione; i terzi, rinfocolati dal desiderio di potersi appigliare a qualsiasi cosa pur di sminuire l’ennesimo taglia e cuci dei soliti noti. Niente da fare. Sarà perché l’omaggio ai numi tutelari è cosa ben diversa dalla pedissequa decalcomania, e la penna di Dan Auerbach – pur con qualche aggiustamento di maniera – ancora una delle più affilate in circolazione?

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