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R Recensione

6/10

Miss Chain & The Broken Heels

The Dawn

Voci di corridoio, la cui reale attendibilità non è stata pienamente vagliata dal sottoscritto (ché, per i corridoi, tirano ancora certi spifferi da ghiacciare le ossa...), danno l'esperienza Vermillion Sands per morta e sepolta, ancora mesi fa. Gran peccato. Ma che l'americana, declinata in un po' tutte le sue sfumature, sia stato di cose ancora fortemente (nord)italico, lo testimonia la vitalità e la prolificità di gruppi ed etichette settarie. Parlare del comeback sulla lunga distanza di Miss Chain & The Broken Heels non è cercare, forzosamente, di ricostruire quel perfetto triangolo individuato, ancora qualche anno fa, coi rimanenti vertici presidiati da Mojomatics e Movie Star Junkies: è, invece, l'occasione ideale per rispolverare le grammatiche del recente rock'n'roll tricolore in salsa stars&stripes e riaccendere i riflettori su una corposa scena che, manco a dirlo, trova molto più consenso fuori dai confini che non nel Paese stesso.

Non sono dei novellini, Miss Chain & The Broken Heels, e il plauso racimolato oltreoceano (tanto a levante, quanto a ponente) è garante di una realtà solida ed affermata come, d'altro canto, la musica da loro espressa. Gagliardi e fieri sono i brani che plasmano la struttura di “The Dawn”, gagliarda e fiera la voce di Astrid Dante, sacerdotessa garage con il lipstick in mano ed i tacchi infranti. Le acustiche elettrificate di “The Dawn Is Me” catapultano subito l'attenzione su uno scenario rustico ed essenziale, flower power dissestato dai colpi degli Animals (due minuti e via), mentre la corale “Tell Me Why” si blocca a metà per poi rallentare, in uno slow motion psichedelico, con pochi accordi cullati in un dondolo beatlesiano. Il passo sbarazzino e kinksiano di “Don't Look Back”, vagamente stomp nelle soluzioni ritmiche, fa il paio con il lento pulito di “Let Us Shine”, proprio come la stratificazione Mamas & Papas di “Calcutta” va a braccetto con il surf californiano di “Little Boy”. La simmetria viene portata avanti fino in fondo, arrivando al robusto folk-rock di “Rainbow” (aperto dalla breve strumentale in reverse “Lazy Tide”), che si trascina in una contagiosa chiosa Mumford & Sons da handclappin' e singalong.

Ciò che frena gli entusiasmi generici, al netto del carisma della frontwoman e dell'indubbia padronanza di scrittura dei musicisti, è la mancanza di un brano veramente memorabile, di un anthem in grado di spiccare sugli altri e di creare dislivello e disomogeneità nella scaletta. Un elemento, in altre parole, che a dischi del genere serve come il pane.

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