The Jim Jones Revue
Burning Your House Down
Ha ancora senso parlare di rock’n’roll (e suonarlo) all’alba degli anni dieci del terzo millennio? Si, avete letto bene il caro vecchio, perennemente moribondo, rock per di più col suffisso rotolante. Roba carbonara riservata agli accorati circoli nostalgici dell’invenzione musicale che più ha segnato, nel bene e nel male, l’immaginario popular dalla metà del secolo scorso. O forse no? E se invece avessero ragione loro? Se nel perenne presente in cui viviamo, scandito dall’avvicendarsi di tecnologie e innovazioni che rendono obsoleti, un minuto dopo averli partoriti, i modelli culturali che vi si appoggiano, se in questa scoscesa e sterminata vallata musicale animata da incroci musicali alla seconda, ossia di sottogeneri dei sottogeneri che si contaminano fra loro allargando a dismisura il corredo cromosomico dell’offerta, se in tutto ciò, dicevamo, i concetti stessi di passato e futuro, di vecchio e nuovo, avessero perso ogni residuo significato? In tal caso, dopo aver circumnavigato ed esplorato ogni soluzione possibile, ed essendo la terra tonda e fatta di emisferi come la mente che l’abbraccia e la comprende, non si ritornerebbe fatalmente al punto di partenza, al brodo primordiale dove tutto ha avuto inizio? Se così fosse loro sarebbero talmente indietro nella corsa da ritrovarsi improvvisamente in testa.
Loro cioè: Jim Jones (già con Thee Hypnotics e Black Moses) alla voce e alla chitarra, Rupert Orton (fratello della bravissima e sfortunata Beth) alla solista, Elliot Mortimer al piano, Gavin Jay al basso e Nick Jones alla batteria. Signore e signori: la Jim Jones Revue. Gente poco raccomandabile come si evince dal moniker. Inglesi che al posto del tea, alle cinque si berrebbero volentieri una te…quila boom boom corretta alla nitro. Look da delinquenti chic a là Bad Seeds/Jon Spencer Blues Explosion, armati di vecchie munizioni fifties torcibudella deflagrate da un bazooka sonico hard/garage/punk che demolisce ogni perplessità di ordine estetico con la sua selvaggia debordante fisicità.
Burning Your House Down, il loro secondo album, è come ascoltare Rockin’ Bones – 1950’s Punk & Rockabilly, raccolta di misconosciute gemme dei fifties più balordi e scorretti, suonato in presa diretta dagli Mc5 (Big Len) ma senza pipponi politicizzati o dalle New York Dolls (Premeditated) ma senza foulard e mascara. Chitarre fiondate a folle velocità come Chevy e Pontiac verso lo strapiombo di “Rebel Without A Cause”, piano che, a tratti, assurge a primario strumento ritmico e solista, proprio come recitava circa sessant’anni fa la ricetta originale, basso basale e monolitico e batteria che pesta sodo come in una rissa fra Mods e Teddyboys. Il tutto compattato da un tiro pazzesco, sguaiato ed truculento ma anche sexy e ballabile e dalla produzione sapiente del “caveiano” Jim Sclavunos. Elemental, High Horse e Disonest John sembrano uscite dalla mente idrofoba di un Jerry Lee Lewis rinchiuso fra le pareti imbottite di un manicomio maccartista; Foghorn e la title track è Little Richard che accompagna al piano Screamin’ Jay Hawkins e lo costringe a muovere quel culone nero schiumando ruggiti da paura; Killin’ Spree un jump-blues anabolizzato che si arrota nella morsa centrifuga del finale.
Con un repertorio così integralista e senza la minima intenzione di tirare il fiato (non dico una ballad, ma nemmeno un mid-tempo, un esotismo, una parentesi, una qualsivoglia divagazione) è facile pronosticare a Jim & C. una carriera tanto longeva quanto ripetitiva che potrebbe sprofondare da un momento all’altro nel culto feticistico o nell’anonimato. A meno che non abbiano ragione loro. Per questo vale la pena di battere il ferro finché è caldo. Anzi incandescente come l’incendio che scoperchia il tetto di una casa in copertina.
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