The Rolling Stones
Sticky Fingers
1971: l’offensiva sud-vietnamita viene definitivamente ricacciata oltre i confini del Laos, Richard Nixon sta perdendo la guerra e cerca un modo onorevole per tirarsene fuori inaugurando quella che verrà definita la “diplomazia del ping-pong”: parla a nuora (Cina) perché suocera intenda (Urss). Nel frattempo: decade l’accordo di Bretton Woods che vincola il dollaro al prezzo dell’oro, estremo tentativo di riequilibrare la bilancia dei pagamenti spossata da un decennio di operazioni militari in Indocina; 33 detenuti e 10 guardie muoiono durante gli scontri alla prigione di Attica; l’Apollo 14 porta a termine la sua missione: sono il quinto e il sesto uomo a mettere piede sulla luna. A Belfast le tensioni fra la comunità protestante e quella cattolica sfociano in una nuova ondata di scontri e di repressione.
Anche per il rock è un periodo di riflusso e, sebbene Yips e Panthers ai ostinino a negarlo, il gran balletto rivoluzionario è giunto agli ultimi passi: Hendrix, Morrison e la Joplin sono già morti (anche se, forse, qualcuno di loro ancora non lo sa), i Jefferson Airplane belli che fottuti, Marvin Gaye si chiede: “Cosa diavolo sta succedendo?”, gli Zeppelin aggiungono con IV quel tanto (o poco) che gli era rimasto da dire, gruppi come Mountain (“Flowers Of Evil”) e Grand Funk Railroad (“E Pluribus Funk”) prefigurano quel rock vanesio, restauratore e verticistico che di lì a poco diventerà la norma (“peccato che ti sia perso il rock” disapproverà Lester Bangs).
L’asse dell’originalità si sta decisamente spostando verso l’Europa: Germania, Faust (“Faust”), Can (“Tago Mago”), Amon Duul II (“Tanz Der Letminge”), Kraftwerk (“2”); Inghilterra, Yes (“Fragile”), Genesis (“Nursery Crime”), Jethro Tull (“Acqualung”), Soft Machine (“4”) e Irlanda, Van Morrison (“Moondance” è dell’anno prima) e John Martyn (“Bless The Weather”).
Scellerati e controcorrente, come da genoma, gli Stones, usciti pressoché indenni dai necrologi di Hartfield, Altamont e Bel Air, seguono l’itinerario opposto: dal vecchio al nuovo continente, dal rhythm’n’beat all’ hard rock. E Sticky Fingers ne è la riprova, basta guardare la copertina: referto pop scattato da Andy Wharol dove, inguainata in un paio di blue jeans, traspare tutta la sfrontata fisicità del loro sound, e all’interno la famosa icona “Tongue & Lips” con la bandiera americana in bella mostra, tappezzata sulle papille tumide. Più chiaro di così.
Ma Sticky Fingers non è solo un lavoretto di labbra, né un’ indistinta progressione di eroismo erogeno: monolitico, certo, ma anche camaleontico, elegante eppure essenziale, asciutto ed orchestrale, viscerale e metafisico, arroccato su un’ inflessibile teoria hard-blues ma nonostante questo capace di vaticinare un immaginifico squarcio di futuro. Ve lo concedo: rimpiazzare il genio galante e improvvisatore d’un Brian Jones non fu uno scherzo, ma l’aggiunta del loro miglior solista di sempre (Mick Taylor, ex Bluesbreaker) ad una coalizione che comprende Ian Stewart, Nicky Hopkins e Billy Preston alle tastiere, Jim Price e Bobby Keys ai fiati, Paul Buckmaster agli archi (sintetici) più Ry Cooder e Jack Nitzsche (in Sister Morphine), affidata alle cure esperte di Jimmy Miller (tessitore già dietro i sofisticati arazzi dei Traffic), aiuta il gruppo a pianificare il futuro e ad affrontare impavido una nuova generazione musicale.
Keith Richards sgrossa il suo riff più memorabile di sempre (con Satisfaction e Jumpin’ Jack Flash, ex aequo) in Brown Sugar: la batteria del taciturno Watts, al solito, è da chiamata alle armi, il basso di Wyman, impellente e minimale, sta come un campo magnetico ad una scossa elettrica, sax, piano e marimbas abbelliscono l’omaggio più perverso mai concepito (nel testo di Jagger si fa esplicito riferimento ad argomenti allora tabù come sesso interrazziale, schiavismo sessuale, cunnilingus e, poco più velatamente, al sadomasochismo e all’uso d’eroina) al meticciato e al connubio di radici inglesi ed africane innato nel rock’n’roll. Elegantemente avvolto da contrappunti orchestrali Sway è un hard-soul coriaceo, il fulcro del lavorio melodico e percussivo del piano di Hopkins e gli assoli più tortuosi e micidiali di Taylor (impressionante quello dell’ outro), mentre Jagger si strugge già presago dei tempi bui che s’approssimano ma ruggente la sua inesausta volontà di sopravvivere al dolore e all’assuefazione (“It’s just that demon life has got you in sway”).
Sospesa fra le corde dell’estasi e quelle dell’angoscia è anche Wild Horses, forse il loro massimo capolavoro in campo acustico: elegia country-soul all’amore sadico e tormentato (tipico di Jagger, forse ispirato da Marianne, forse no), un blend di picking britannico e slide sudista punteggiato dal dulcimer. Poco celebrata (anche se Scorsese la infilerà in una mezza dozzina di pellicole) ma non meno conturbante è la splendida Can’t You Hear Me Knockin’, hard-blues animalesco, espanso ed anfetaminico sospinto dai duetti fra le chitarre e l’organo soul di Preston, nella prima parte, dal minuto tre, una mini jam lasciva ed orgasmatica, uno sciame di ardori, sfregamenti, mucose che si mescolano e contorsioni erotiche mimate dagli assoli del sax di Bobby Keys e da quelli della chitarra di Taylor sullo scalpiccio delle congas percosse da Miller in persona. You Gotta Move è una convincente versione di un Delta blues del Rev. Davis. Bitch è un garage-soul con gli ottoni che doppiano le chitarre e insufflano di adrenalina la ritmica pelle e ossa: una distopia dell’amore insonne come metafora dell’astinenza. I Got The Blues, maestosa soul ballad, con le chitarre in sordine, il solenne contrappunto dei fiati e un assolo di organo che spartisce in due la magistrale interpretazione di Jagger, un incrocio fra Lord Byron e “Il Grande Gatsby”.
Fin qui il lustro della tradizione anglo-afro-americana, d’innanzi due barlumi d’avvenire: lugubre e semiacustica Sister Morphine (scritta da o forse in collaborazione con Marianne Faithfull) fissa le struttura portante del grunge (gli Alice in Chains o gli Screaming Trees ci stanno già tutti in un pezzo del genere) con l’impietoso resoconto d’un overdose che si trasforma in una pietosa invocazione del cupio dissolvi degna di Lou Reed, e l’altra ballata tossica, la macabra e misogina Dead Flowers, quasi una trisavola cow-punk dei Meat Puppets. Chiude Moonlight Mile, altro pezzo formidabile, una classica highway song che, come un filo d’Arianna, si dipana in arpeggi orientali quasi kabuki, vocalizzi introduttivi che sembrano fare il verso all’opera cinese, su giri concentrici di tamburi zen e improvvisi crescendo sinfonici.
Ancora una volta, come in Simpathy, gli Stones parlano per bocca del diavolo che gli rivela i più oscuri segreti della storia: la cappa di menzogne istituzionalizzate nel Watergate e il fiume d’eroina che inonderà i ghetti neri per lobotomizzarli dalla propaganda delle Pantere. Ma soprattutto l’arcano di una creatività che in seguito faticheranno a ritrovare, latitando quasi del tutto nei loro (sempre meno) aurei standard.
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