V Video

R Recensione

6,5/10

Crippled Black Phoenix

Great Escape

Quasi quindici anni sono trascorsi dalla formazione del nucleo originario dei Crippled Black Phoenix, quello che nel 2007 diede inizio all’epopea delle endtime ballads con “A Love Of Shared Disasters”: un lasso di tempo ben più che sufficiente a definire il classico contemporaneo, a delinearne le peculiarità. Il collettivo itinerante dell’autoritario mastermind Justin Greaves – sette dischi e un’infinità di avvicendamenti nella line up dopo – non è diventato la sibilla di una generazione informe, un ruolo cui, con un po’ più di fortuna, avrebbe potuto aspirare: pur tuttavia, nella confusione post-ideologica dei nostri tempi e nel marasma inarginabile del rock d’oggi, ha saputo ritagliarsi uno spazio significativo e, nel suo, persino autorevole, uno degli ultimi baluardi reazionari (ma permeati di un linguaggio volutamente barricadero, emotivamente partigiano) all’avanzata della modernità.

Ancora su azione e rivoluzione. Tramontato da un bel pezzo l’apice di carriera – in costante declino a partire dal disomogeneo doppio “(Mankind) The Crafty Ape” del 2012, con un parziale riassestamento sui dignitosi parametri dell’ultimo “Bronze” del 2016 –, i Crippled Black Phoenix non hanno comunque smesso di alimentare la propria attività in studio, forse spinti dalla convinzione (ragionevole) che la più alta forma di resistenza odierna è il rifiuto del non-standard liquido. Questa testarda resilienza si riflette nel profilo della formalizzazione musicale del gruppo, rimasto sostanzialmente invariato negli anni a dispetto di mutazioni anche corpose della sostanza stilistica. Non ci si fa immediatamente caso, ma è una realtà: tutti i loro dischi si sviluppano su minutaggi corposi (dall’ora in su) e, specialmente negli ultimi anni, si avvicinano per distribuzione di snodi narrativi. Se, specialmente per l’irripetibile trittico “Night Raider” – “The Resurrectionists” – “I, Vigilante” (2009-2010), sull’esperienza magica ed esteticamente suggestiva dell’ascolto influiva anche una componente di imprevedibilità (non sapere cosa sarebbe successo quando), col passare del tempo ed il consolidarsi della maniera (o l’evaporare della fantasia, come vi suona meglio) si è preferito affidarsi ad uno storytelling fondato su iterazioni familiari e turning point annunciati con largo anticipo: introduzioni atmosferiche o diversivi da depistaggio, prima sequenza compatta, suite centrale, alcune deviazioni sparse nella seconda metà, solenne chiusura con seconda suite. Un romanzo polifonico di cui si conoscono in anteprima i personaggi, ma non necessariamente le loro azioni, come diviene evidente grazie ai settantatré minuti di questo “Great Escape”.

Applicando il rudimentale schema proppiano sopra delineato all’ottavo full length dei Crippled Black Phoenix, otteniamo la seguente suddivisione. Si inizia con un tenue warm up floydiano affidato ad un monologo samplizzato di Alan Watts sulle costrizioni della società atomizzata (“You Brought It Upon Yourselves”). Seguono un epico singolone da stadio che si sviluppa su una melodia per arpeggi elettrici assai simile a quella della vecchia “Burnt Reynolds” (“To You I Give”), un interlocutorio studio psych rock (“Uncivil War, Pt. 1”), un roccioso mid proto-hard rock à la Carpenter con la voce di Daniel Änghede sfigurata dal vocoder (la bruttina “Madman”) e, soprattutto, gli elegantissimi ed emozionanti dodici minuti di “Times, They Are A’ Raging”, una malinconica piano ballad le cui distorsioni grunge crescono ad ogni passaggio (efficace il salto tribale di 6:14), sino ad una coda che contrappone assordanti layer chitarristici post rock e piccole sonatine ossianiche per tasti neri, fisarmoniche e riverberi di chitarra (qui la nostalgia prende il sopravvento). Da qui in poi subentra l’anello debole dell’attuale formazione, Belinda Kordić, la cui voce incolore viene prestata sia ad un sentimentale prog rock anathemiano di discreta fattura (“Rain Black, Reign Heavy”) che ad una sbrodolata animalista senza troppo nerbo (“Nebulas”): tra di esse, uno strumentale giocato fra suggestioni sintetiche e flanelle svolazzanti (“Slow Motion Breakdown”) e un rifacimento in minore, anch’esso vocoderizzato, di “444” (“Las Diabolicas”). Ma è il finale, con gli intensi venti minuti della title track, a regalare i veri fuochi d’artificio. La prima parte, condotta a due voci, ha carattere romantico e ambientale, con le suggestioni della tromba di Helen Stanley ad inserirsi tra i vuoti lirici di un’endtime ballad floydiana fuori tempo massimo. La seconda, inizialmente animata da un groove hard rock che quasi ricorda certi Motorpsycho novantiani, viene decostruita in un trionfo orchestrale del sublime, un vibrante valzer psych che si spegne gradualmente sull’onda del trasporto emozionale (Jonas Stålhammar qui al suo meglio).

La morale dell’esposizione è duplice. Punto numero uno: mai credere ciecamente ai formalismi, specialmente quando – da strumento per analizzare la realtà – pretendono di farsi eziologia della realtà stessa. Secondo: i cliché, per poter essere tali, non richiedono di essere sfidati. È pertanto ora di sfidarli: anche attraverso un disco classico come “Great Escape” che, tra alti e bassi, riconferma la ripresa dei vecchi guerriglieri anglosassoni.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.