Kasabian
West Rider Pauper Lunatic Asylum
A suo tempo i Kasabian avevano messo d’accordo (quasi) tutti: “LSF” andava bene per le pubblicità, per i club, per la critica, per la gente, per la classifica. Stava per 'lost souls forever', e questo piaceva da matti. Il loro debutto sapeva di Madchester e di medio oriente, di cemento e di sudore, univa la melodia alla psichedelia e confondeva i Settanta con i Novanta. Poco dopo, sempre i Kasabian, misero d’accordo (quasi) tutti di nuovo. “Empire”, il loro secondo lavoro, partiva bene, finiva anche meglio, ma sguazzava per il resto in una mediocrità povera di idee, che già faceva il verso al passato prossimo.
E adesso? Adesso credo che sia difficile, per i Kasabian, mettere d’accordo tutti una terza volta. Ma che “West Rider Pauper Lunatic Asylum” provi (e riesca, in parte) a risollevare le sorti della band dalle sabbie mobili dell’appannamento mi sembra difficilmente smentibile. Dopo la defezione del co-autore Christopher Karloff, e dopo un Ep di transizione che piazzava pericolosamente un brano nella colonna sonora di Fifa 2009 (“Fast Fuse”: è anche qui), i restanti quattro hanno deciso di scegliersi un produttore dance (se non hip-hop) oriented come Dan The Automator (Gorillaz, Peeping Tom) e di calcare i toni, sia nella direzione psych-rock sia in quella danzereccia.
Se loro dichiarano che grande fonte di ispirazione è stato Syd Barrett, alla fine della fiera è un mix di Oasis e Chemical Brothers a uscire dal laboratorio, tanto che l’iniziale “Underdog” ricorda non poco, nell’attitudine vocale e nei suoni, la “Setting Sun” che Noel Gallagher cantò, annus domini 1996, per i fratelli chimici. Le melodie vocali di Tom Meighan, geometriche e incisive, sono immensamente debitrici dei Novanta britannici, e tutt’attorno sono costruite architetture foniche che, partendo da Stone Roses e Primal Scream, raccolgono un crossover dance-rock ruffiano ma non privo di trovate intriganti, tra una sezione ritmica preponderante e incroci vocali drogati su sfondi ancora volentieri esotizzanti (dai 90 inglesi risorgono pure Black Grape e Kula Shaker). Le cose migliori, non a caso, sono quelle più aggressive (“Fast Fuse”, “Take Aim”, che ripropone rinvii arabeggianti un po’ usurati ma rimane l’apice del disco), con “Where Did All The Love Go” che potrebbe uscire da divagazioni tra Daft Punk e Ladytron e “Secret Alphabet” ad esibire ornamenti eighties.
Le cadute non mancano, ad avallare l’impressione che i Kasabian vivrebbero meglio come band da singoli. “Vlad The Impaler” stroppia in direzione disco punk, mentre “Fire” banalizza la ricetta con riff acquosi e sotto-cori da Mtv. Dove i Kasabian rallentano, diventano citazione pura – “Thick As Thieves” rifà gli Oasis sciancati di “The Importance Of Being Idle” – o ovvietà, pur gradevole, come in “Ladies And Gentlemen (Roll The Dice)”: acustica, stilettate elettriche tremule e organo per una ballad tutta retrò. Melenso il lento finale (“Happiness”) con uno spento Serge Pizzorno alla voce. Ancora: meglio dove cercano la hit sicura che dove sperimentano, anche in ambiti 'facili' che escono male comunque, fuori sesto.
Tutti d’accordo sul terzo tempo dei Kasabian? No? E forse è un buon segno.
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