Mondo Drag
New Rituals
I Mondo Drag non sono che l'ennesima band americana che si mette a ravanare nel cestone post-hippie fatto di garage, psichedelia e hard-rock. Non ci si aspetti quindi chissà quale meraviglia da New Rituals, disco spudoratamente rétro che a parte rarissimi passaggi (Fade Out (Into Space) sono Mc5 e Blue Cheer dopo aver scoperto lo stoner) appare saldamente incastonato su un sound ignorante delle rivoluzioni wave-punk.
Nonostante i Mondo Drag non siano poi questa sorpresa rivoluzionaria riescono a realizzare un disco senz'altro migliore ad esempio di Wilderness Heart, ultimo scialbo episodio dei Black Mountain che ha ribassato le quotazioni del gruppo dopo l'incantevole In the future.
New Rituals è pieno di pezzi che avrebbero voluto (e potuto) scrivere i migliori Black Mountain: True visions, Love Me (Like a Stranger), Tallest Tales... Brani che virano tra ballatone heavy-blues a roboanti scariche rock d'assalto, passando per momenti lisergici più rilassati e a luci spente. Nel complesso roba non così devastante, anzi decisamente “di maniera”, eppure di più che graziosa fattura.
Il filone è quindi noto: al di là di qualche episodio minore e trascurabile (Come Through, Light as a Feather) ci si catapulta a rotta di collo nei primi anni '70, come dimostrano i riffoni epici e l'hammond d'accompagnamento di Serpent Shake, o il viaggione fatto di fuzz e riverberi (ma anche di un incisivo heavy-blues) di My, Oh My, stessa roba dei sette minuti finali di Apple, classica sfuriata psycho che non aggiunge niente di nuovo al repertorio.
I momenti migliori e più interessanti del disco si concentrano in realtà in una manciata di brani: l'omonimo New Rituals è un acid-rock che unisce la sfrenata gioia '60s dei più euforici Jefferson Airplane (lo sentite quell'organetto che scatta dopo 1'14''? Non è uguale a quello di Somebody to love?) con l'attitudine garage più tipica di gruppi rétro come Comets on Fire e Gris Gris. Riverberi space, echi di chitarre alla Hawkwind e cantato che tenta disperatamente di riagganciarsi al semi-leggendario Malcolm Mooney, che dava la marcia in più ai Can degli esordi.
Il tutto scorre via che è un piacere, pur senza eccessivi colpi di genio. Più interessante ancora è invece Black River: strumentale che riparte dai tardi Led Zeppelin del periodo Houses of the holy, intensificandone le scaglie psichedeliche con un marchio più orientaleggiante, unito ad una ricerca armonica fresca e leggera. L'effetto è di riascoltare il Jimmy Page dei tempi d'oro. Il che varrebbe da solo il prezzo del biglietto...
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