The Besnard Lakes
The Besnard Lakes Are The Roaring Night
E due. Volessi fidarmi dei proverbi, del prossimo disco dei canadesi Besnard Lakes dovrei completamente disinteressarmi. E credo che lo farò, alla faccia della genericamente bella predisposizione a dare sempre un’ulteriore possibilità. È come con le persone. Per quanto possano parlartene bene, alcune non fanno proprio per te. E non c’è niente da fare.
Ecco, i Besnard Lakes non fanno per me. Quando, un paio di anni fa, il loro precedente lavoro (The Besnard Lakes Are The Dark Horse, 2007) entrò nel mio lettore sospinto da vele gonfie di estatiche critiche, riuscì a fare soltanto qualche giro prima d’essere estratto e riposto senza gloria sullo scaffale dove ancora oggi, se nessuno me l’ha sgraffignato, dovrebbe stare, quasi intonso. Al suo fianco, temo, troverà spazio a breve il lavoro qui in oggetto.
Sì, va bene, sto esagerando. E per questo la metto sul personale. Fatto sta che il ritorno del combo canadese, ancora una volta, non pare all’altezza delle aspettative che i numerosi quanto autorevoli entusiasmi hanno ovviamente legittimato.
Ma vediamo di fare un po’ di ordine, rendendo giustizia ad un lavoro comunque degno di nota e a musicisti di buon livello e indubbio valore.
The Besnard Lakes Are The Roaring Night si snoda ancora su un terreno sonoro che è incrocio di molteplici correnti (psichedelia, space rock, shoegaze, power pop, prog, slow core) e che trova la sua radice comune in un ibrido incrocio fra America, vecchia e nuova, ed Inghilterra, di cui si evoca invece prettamente la gloria degli anni settanta. Anzi, di quella contingenza spazio-temporale, i Besnard Lakes paiono intessere un vero e proprio elogio. A partire dall’amore dichiarato del gruppo per i Led Zeppelin, trasposti quasi fisicamente dentro l’album in questione attraverso l’uso di un mixer tedesco Neve, del 1968, utilizzato - a quanto pare - proprio dallo storico gruppo britannico per parte del loro Physical Graffiti. E nonostante ciò, sono invece i fantasmi di Electric Light Orchestra, Alan Parsons Project e Pink Floyd a caratterizzare in massima parte la componente “british” della musica contenuta nel disco.
Ma non finisce qui. Dal nuovo continente arrivano echi di Beach Boys (palesi nei falsetti corali, un poco più celati nelle melodie) e fortissimi richiami ai Low. Sarà che la coppia Jace Lasek/Olga Goreas condivide gruppo e vita privata esattamente come i due Low Alan Sparhawk e Mimi Parker, sarà il matrimonio soave di voci maschile e femminile, sovrapposte o alternate, ma sempre perfettamente complementari, fatto sta che in più di un episodio (Chicago Train o Glass Printer, piuttosto che Light Up The Night o il finale di Land Of Living Skies) il paradigma dei maestri di Duluth, nella sua veste più distorta e chitarristica (The Great Destroyer), è riprodotto con una certa, incontestabile prepotenza.
La quantità di riferimenti che il progetto The Besnard Lakes nasconde dietro il suo carattere comunque attuale è già un primo, forte elemento negativo. C’è da dire, però, che l’equilibrio con cui il gruppo riesce a miscelare i vari elementi per riproporli in una veste convincente ha davvero del mirabolante. Il chitarrismo epico, evocativo, tipicamente canadese viene speso in brani dal chiaro sapore prog che trovano la loro forma più naturale in strutture lungamente costruite e tese spesso al raggiungimento di un climax sonoro/emozionale (l’iniziale - Floydiana anche nella divisione in due parti - Like The Ocean, Like The Innocent dice già quasi tutto).
Fanno eccezione il singolo Albatross, sorta di incontro fra Mazzy Star, Pink Floyd e Fleetwood Mac in territori shoegaze, la conclusiva The Lonely Moan, melodia quasi inesistente, sprofondata in un lungo riverbero di EBow, la bella e incisiva And This Is What We Call Progress, ritmo marziale con basso insistito sul battere ed un ottimo lavoro di chitarre.
Album dal suono denso, ammantato da una foschia di rumori e pregno di moderna epica chitarristica quanto di richiami nostalgici (alcuni davvero fuori luogo - i solo di chitarra in primis - altri più piacevoli, vedi l’uso frequente eppur mai fastidioso del tremolo), che supporta un’attitudine vocale alla melodia pop semplice, malinconica, evocativa, minimamente articolata nel tempo. Bel suono e pezzi ben costruiti insomma, dove tutti i principali protagonisti trovano il loro posto con una certa, piacevole naturalezza. Non brilla però, in nessun senso: non ci sono melodie straordinarie, non ci sono arrangiamenti straordinari, non ci suono suoni straordinari. Mai. E anche il carattere dichiaratamente sperimentale, in fin dei conti, resta mestamente circoscritto agli artifizi del solo luogo di registrazione: lo studio.
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