The Flaming Lips
The Soft Bulletin
Dai (forse) rimpianti anni Novanta, ai (non tanto) rimpianti anni Zero. Uscito proprio al volgere del millennio (1999 A.D.), “The Soft Bulletin” rappresenta anche per i Flaming Lips quello che si può definire un passaggio fondamentale. Un punto di svolta. Quasi a sottolineare l’influenza (riscontrabile in vari testi e titoli) dello zodiaco, dei numeri, delle date e dell’astrologia in generale su Wayne Coyne e compagni. Momento di crisi – secondo la più classica etimologia del termine – come attraversamento di un “crinale”. Salire sulla montagna della sperimentazione fino all’apice di “Zaireeka” (1997 A.D.) – disco uno e quadruplo insieme, visto che per ascoltarlo interamente bisogna far girare assieme quattro cd –, per poi iniziare la discesa dall’altra parte. Sul versante opposto. Quello più propriamente pop.
Anche se poi – a livello più strettamente contenutistico – gli apici di sperimentazione (per non dire di follia) erano stati toccati anni prima, vedi come esempio massimo la suite “Hell’s Angels Cracker Factory” (1989 A.D.). Un trapasso. Per qualcuno si è trattato di una trasformazione da crisalide in farfalla. Per altrettanti se non di più (forse) il contrario. In sostanza da quello che erano prima, a quello che saranno dopo. Da garage-band psichedelica degli esordi che tutto poteva e tutto distruggeva a ensemble di pop-sinfonico (con livelli di glicemia altissimi) che almeno per gli altri due lavori successivi, e sempre con meno verve, prenderà il sopravvento su ciò che è stato. O su ciò che poteva essere.
Per aspettare un momento di sintesi e/o di ulteriore passaggio a una nuova fase (la terza a questo punto) bisognerà aspettare il 2009 A.D. con il recente “Embryonic”. Disco dell’anno da queste parti. Ad ogni conquista che coroniamo, uccidiamo nello stesso tempo un pezzo della nostra libertà. E un pezzo del nostro passato. Così “The Soft Bulletin” cancella con un solo colpo di spugna tutto ciò che il gruppo aveva rappresentato. Nel bene e nel male. Curioso annotare come nello stesso periodo la band forse più assimilabile ai Nostri, ovvero i Mercury Rev, seguiva le medesime traiettorie con “Deserter’s Songs” (1998 A.D.).
Ma tornando a “The Soft Bulletin” giova forse azzardare un’analisi pezzo per pezzo. L’album si apre con il pop-rock danz(eggi)ante di “Race for the Prize”. Il testo parla di scienza e sentimenti (“Two scientists are racing for the good of all mankind, both of them side by side so determined”), contrapposizione tanto cara all’istrionico paroliere della band. Si prosegue con “A Spoonful Weights a Ton” che inizia a rendere ben chiaro su che lidi si è spostato l’asse sonoro del gruppo. Alle manopole fatalmente si trova proprio quel Dave Fridmann che aveva caratterizzato, oltre che da produttore anche da polistrumentista, la svolta Mercury Rev. Strati e strati di suono, tastiere ed elettronics, chitarre quasi assenti, se non sommerse da migliaia di delay, eco ed effetti vari.
Non ci sarebbe nulla di male, se a mancare non fossero però le canzoni. E per trovare quelle, bisogna attendere il battito cardiaco di “What is the Light?” (per inciso traccia numero 5). “The Spark that Bleed” è troppo lunga e spicca il volo solo nella seconda parte, “Slow Motion” non è niente più di un riempitivo. Proseguendo anche “The Observer” dà l’idea del compito per casa, mentre “Waitin’ for a Superman” (con un refrain irresistibile come “It’s just too heavy for a superman to lift”) riporta un po’ più a galla le quotazioni dell’album. Altri due pezzi forti del lavoro sono il soul infernale di “The Gash” (con squarci epico-pinkfloydiani) e “Feeling Yourself Disintegrate” con intro giocata sugli altoparlanti.
La versione cd si chiude poi con tre bonus track che lasciano aperto più di un punto interrogativo. Le prime due sono delle minime variazioni sul tema di “Race for the Prize” e “Waitin’ for a Superman”, il terzo pezzo senza infamia e senza lode “Buggin” non risolleva di certo le sorti dell’album. Un lavoro che dietro una valanga di suoni (da orchestra) nasconde dunque più di una lacuna, soprattutto a livello compositivo. Un album che segna come detto l’inizio di una fase non proprio esaltante della band, ma che d’altra parte forse ha il merito di aver dato il la a tutta una serie di gruppi che si sono ispirati a questo suono. I Flaming per fortuna con l’ultimo album se ne sono, invece, smarcati con gran disinvoltura. E per fortuna verrebbe da dire visto l’ottimo risultato.
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