Twink
Think Pink
Twink è lo pseudonimo del batterista John Alder, uno dei tanti personaggi che hanno fatto la storia del rock in silenzio, o meglio rumorosamente ma sempre dietro le quinte, distante da elogi pubblici e copertine dei magazines. Eppure il curriculum di Twink è impressionante: nei ‘60s membro di gruppi del calibro dei Tomorrow e dei Pretty Things. Nei ‘70s protagonista dei Pink Faries e in collaborazione con nientepopòdimeno che Syd Barrett e il suo gruppo The Stars.
In mezzo l’esordio solista Think Pink, epicedio di una stagione psichedelica (quella inglese) davvero superba, in grado di rivoluzionare la musica tutta nell’arco di neanche un lustro. Nonostante l’annata tarda (1970) Think Pink rappresenta uno dei vertici più alti della prima epoca psichedelica, diventando anzi un perfetto anello di congiunzione tra un suono anglosassone ormai diventato classico e canonico e la nuova linfa vital-tribalistica della stagione kraut-rock in avvio proprio in questo periodo.
Per dare vita a questo capolavoro Twink ha raccolto quanto di meglio le sue amicizie gli offrivano: Mick Farren e Paul Rundolph dai fidati Deviants, John Povey dai Pretty Things, Junior Wood dai Tomorrow e Steve “Peregrin” Took dagli emergenti Tyrannosaurus Rex. Nonostante l’impressione di un “supergruppo” un po’ stagionato il risultato dell’assembramento porta alla realizzazione di un’opera straordinariamente moderna e compatta, uno di quei viaggioni fatti in preda alle scariche epilettiche più violente e fantasiose dell’LSD che ancora oggi riescono a impressionare pure noi comuni mortali sobri e salutisti.
Il fatto che l’album sia straordinariamente omogeneo nella tenuta artistica non impedisce la presenza di correnti, stili e approcci diversi sparsi tra i brani, talvolta all’insegna del rétro, talvolta in grado di anticipare e influenzare futuri maestri della psichedelia. The coming of the other one e Dawn of magic sono due brani abbastanza sintomatici in tal senso: due sacre omelie mistiche che tra tamburi, gong e atmosfere visionarie resuscitano uno stadio umano pre-moderno, in bilico tra antica saggezza orientale e primitivismo bello e buono. Brani alienanti e stranianti che danno l’impressione di catapultare l’ascoltatore dal salotto di casa direttamente in un monastero immerso in una giungla.
In mezzo l’epico psych-rock di Ten thousand words in a cardboard box, con la sua guerrigliera chitarra heavy che troneggia tra un basso sgusciante e una batteria svogliatamente scazzata e perfetta. Una fuga in avanti che congiunge idealmente i primi Blue Cheer agli Hawkwind più maturi.
Hawkwind che vengono anticipati spesso da Twink: così nel cantato di Tiptoe on the highest hill, minimal-rock figlio anche della passione dei Jefferson Airplane e degli intellettualismi più sperimentali dei Pink Floyd, che si fanno largo nel superbo climax ascendente in cui tra assoli acidi e frastornanti si erge un wall of sound abrasivo e imponente.
Sprazzi di Hawkwind emergono pure in Suicide con il robusto attacco in semi-acustica e il cantato filtrato-suadente. Twink ci mette però un pizzico di genialità in più, che porta ad un’imprevedibilità più tipica di gruppi come 13th Floor Elevators e United States of America. Il risultato finale è un brano de facto molto prossimo al kraut-rock più “americano”, parente molto stretto delle scorrazzate spaziali degli Amon Duul II.
Non mancano poi allucinazioni più provocatorie e squisitamente estreme: Fluid ad esempio inizia come un soft-porno in salsa R&B, tra accordi appena accennati e orgasmi femminili molto più evidenti. Guaiti di piacere che introducono con evidente gusto ad uno sferragliante psych-blues che spacca in due lo stomaco con un turbine di chitarre roboanti e micidiali dall’effetto davvero dirompente. Roba da far venire la pelle d’oca anche a Jimi Hendrix…
Mexican grass war è invece il brano più sperimentale e anomalo del lotto: la stralunata risposta della psichedelia inglese alla Cavalcata delle Valchirie e ad ogni altro brano “classico” (nel vero termine della parola) che ha provato a trasporre in musica le battaglie militari. Qui si parte con una marcetta militare anarchica e selvaggia, tra doppie basi di tamburi e graffianti chitarre acide. Una marcia quasi entusiasta e incosciente di avvicinamento alla battaglia, tra partite a poker, urla di ubriaconi e giochini militareschi. Il tutto sfocia nella devastante accelerazione finale che sublima nello scontro-incontro, fino al suo naturale esaurimento.
In mezzo a tutta bambagia ci si imbatte in un episodio minore come Rock And Roll The Joint, convenzionale heavy-blues in stile Cream che sfrutta appena qualche trucchetto black alla Sly & the Family Stone. Il finale è lasciato all’irriverenza più pura, nel segno della tradizione barrettiana e delle scanzonature dei primi Small Faces: così ecco la filastrocca demenziale di Three Little Piggies e l’ugualmente patologicamente insana The Sparrow is a Sign, appena più consona al recupero di un formato rock con tanto di feedback fragoroso.
Forse una parte finale tutto sommato non all’altezza di un disco a tratti premonitore (tanto kraut-rock e tanti Hawkwind vengono anticipati) a tratti splendidamente riassuntivo di una stagione spettacolare della musica. E allora diciamolo forte che John Alder è un fico della madoi cosicchè un domani venga ricordato anche lui tra i “grandi”.
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