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R Recensione

9/10

Alice in Chains

Jar of Flies

Album che sconvolse critica e pubblico per il suo suono atipico, “Jar of Flies” (come mai prima di allora era accaduto ad un ep) esordì al primo posto delle classifiche. Anticipato da “Sap”, il disco si discosta dall’essenzialità del suo precursore acustico presentandosi musicalmente molto più arrangiato e orchestrale.

In una scena che fondeva la disperazione punk di Cobain al corteggiamento amoroso di Vedder per il classic-rock, gli “Alice in Chains” se ne uscirono con una piccola grande gemma semiacustica che meravigliò tutta Seattle. Sebbene sonorità acustiche fossero già state sperimentate nell’alternative nation dall’antesignano Lanegan (che aveva firmato quattro anni prima “The Winding Sheet”), le melanconiche melodie di “Jar of Flies” non mancarono di sorprendere; e ciò risulta ancora più comprensibile se si pensa che furono fatte seguire al piombo chitarristico di un album come “Dirt”.  

Jar of Fliesesprime l’anima intimista di una delle band dal suono più metallico e cupo della scena. La fragilità emotiva espressa nelle liriche (così come in “Sap” e soprattutto nel live “MTV unplugged”) non è protetta dalla pesantezza del suono e la voce sporca di Layne fluisce più struggente del consueto. Scritto “in poco più di una settimana di alcool e solitudine”, “Jar of Flies” presenta l’inusuale tecnica delle incisioni vocali sovrapposte, e la voce di Layne che fa eco a se stessa risuona gravida di un intimismo impressionante.

A seguito della sostituzione che vede Mike Inez subentrare a Mike Starr (allontanato per problemi di tossicodipendenza), gli Alice in Chains si propongono con una nuova formazione.

L’album si apre con l’incedere ritmico e ipnotico di “Rotten Apple”, una ballata dal sapore dolente, pregna di una spietata sincerità: “Niente più innocenza / infranta la fiducia / così giovane striscio da capo per ricominciare / mi pentirò domani / il mio dolore a mezz’aria, il mio dolore”.

Segue il limpido flusso emozionale del capolavoro “Nutshell”, una ballata triste e profonda come una notte bagnata di pioggia e solitudine: “Eppure ancora combatto questa battaglia tutto solo, nessuno con cui piangere, nessun posto da poter chiamare casa. Il dono che faccio di me stesso viene violentato, la mia intimità è violata, eppure mi ritrovo a ripetere nella mia testa, se non posso essere me stesso, meglio sarebbe essere morto”. La poetica di Layne è permeata da un’emotività sofferente che, malgrado la presa di posizione conclusiva, sembra protesa verso un abisso.

A seguire, la singolare “I Stay Away”, un fosco viaggio dalle tonalità alienanti che si fa maestoso nel momento in cui le stratificazioni vocali vengono circondate dagli archi. Layne col suo timbro notturno e decadente riesce a lacerare la notte, malgrado ogni diceria il suo carisma vocale rimane indiscutibile.  

A confondere l’ombra di questi dipinti della solitudine arriva “No excuses”, uno dei brani più luminosi dell’album, nonché il primo dei due pezzi scritti da Jerry: “Viene il momento in cui non ho la pazienza di cercare la pace della mente, scivolando giù voglio prendermela con calma, senza più nascondere o mascherare la verità che ho venduto”. Il lirismo puro e gli assoli leggeri e ricercati fanno di Jerry (anima compositrice degli AiC a livello musicale) il grande co-protagonista di questo album: “Ogni giorno è qualcosa che mi colpisce così freddamente, trovandomi seduto da solo / tutto va bene, ho avuto una brutta giornata, le mie mani sono a pezzi, infrangendo gli scogli di ogni giorno, esausto e livido, sanguino per te, pensi sia divertente, beh ci stai affogando dentro”.

Dopo il suggestivo strumentale “Whale & Wasp”, arriva la languida “Don’t follow”, secondo pezzo scritto da Cantrell. Malato di tristezza e disincanto Jerry esprime appieno la disillusione della sconfitta: “Dimmi addio, non seguire una tristezza così grande / mi sento così perso e non so perché / sto sprofondando”. La sua voce è molto dolce e la differenza con le tonalità meno immediate di Staley è evidente. Layne entra in scena a metà canzone e la sua immedesimazione nel testo è più che credibile: “Ho dimenticato la mia donna, perso i miei amici, le cose che ho fatto e dove sono stato, freddo è il sudore in cui dormo e gli specchi che vedono il mio viso invecchiare, ho tanta paura senza una ragione, fai qualsiasi cosa per tenermi in vita, pensa alle cose che ho detto, leggi questa pagina fredda e vuota, portami a casa”.  

Scuote dallo sconforto dell’album l’ultima traccia “Swing on this”. Sopra una melodia un po’ fuori dal coro Layne rammenda le voragini della sua disperazione invitando a “passarci sopra”. Malgrado i consigli di parenti e amici a tornare a casa, lui ribadisce fino alla fine: “Lasciatemi stare, sto bene non lo vedete? Proprio bene, un po’ magro okay, comunque dormo / Poi ho sentito una voce, diceva: “Figlio hai una possibilità”, così mi sono perso a schiaffi”.  

La voce alterata di Layne, il cantato chiaro e pulito di Jerry su più tracce, la disfatta espressa nelle liriche e il mancato tour incrementarono ancora una volta le voci che volevano Staley dipendente dall’eroina; e mai voce fu più vera, visto che ormai da anni, Layne era il fedele compagno di una maledizione vestita di bianco.  

Ascoltare Layne in questo ed altri album (a cui è d’obbligo aggiungere “Above”) è come scostare un pesante tendaggio ed entrare in un luogo di espiazione rimasto impregnato di antiche pene, un luogo polveroso e dimenticato in cui si possono scorgere le orme che l’umano dolore sempre lascia al suo passaggio. Chi è pronto a scostare una simile cortina, ascolti questo disco.

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Voto degli utenti: 8,3/10 in media su 23 voti.
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george 9/10
ThirdEye 10/10
infected 10/10
loson 7/10
luca.r 8/10
PehTer 9/10
Dengler 6,5/10
Grind 10/10

C Commenti

Ci sono 11 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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swansong (ha votato 9 questo disco) alle 19:03 del 31 agosto 2011 ha scritto:

Qui il 9 ci sta tutto...

Ecco il disco totale, quello che "rischia" di mangiarsi - per potenza espressiva e forza evocativa - tutto quanto fatto dal "seattle sound" sino ad allora. A mio parere, nessun altro gruppo in seguito - nemmeno loro - ha mai portato lo spleen "groungiano" a tali commoventi livelli.

tramblogy alle 20:55 del 31 agosto 2011 ha scritto:

Bei ricordi....uff

ozzy(d) alle 21:24 del 31 agosto 2011 ha scritto:

esagerato swansong......il disco è molto bello, tra questo e Sap indubbiamente una bella dimostrazione di eclettismo. "don't follow" avrebbe brillato su "automatic for the people" dei REM. "dirt" è meglio pero'.

swansong (ha votato 9 questo disco) alle 11:04 del primo settembre 2011 ha scritto:

"dirt" è meglio pero'.

Mah sai son due dischi diversi (pensa che io a Dirt ho sempre preferito l'ultimo omonimo). E' una questione di feeling ed impressioni personali. Questi sono gli AiC che preferisco e, ribadisco, qui c'è quanto di meglio ha prodotto l'epopea grounge di quegli anni, assieme al giustamente citato "Above" ed ai "Temple of the Dog". Due progetti estemporanei. Due supergruppi e due esempi nei quali (casi più unici che rari in campo rock) l'unione di talenti ha sfornato opere degne della somma dei fattori presenti..

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 10:49 del 2 settembre 2011 ha scritto:

Col senno ti poi, è poco più che un EP, e alcuni pezzi non hanno retto al passare del tempo. Quelli che lo hanno fatto però ("Rotten Apple", "Nutshell" "I Stay Away" ...) sono rimasti nella storia come il contraltare sconfitto e dolorante della rabbia di Seattle.

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 10:49 del 2 settembre 2011 ha scritto:

Col senno DI poi...

Utente non più registrato alle 10:09 del 9 settembre 2011 ha scritto:

caruccio, i migliori alice in chains sono stati quelli in equilibrio tra umori acustici e impennate elettriche. nutshell e don't follow due gioielli.

FrancescoB (ha votato 8 questo disco) alle 14:44 del primo ottobre 2011 ha scritto:

Il migliore degli Alice in Chains, per quanto mi riguarda: qualche passaggo a vuoto ma anche 2-3 pezzi che valgono un'intera carriera. Cantante comunque sempre eccezionale.

NathanAdler77 (ha votato 8 questo disco) alle 23:24 del 11 novembre 2011 ha scritto:

If i can't be my own i'd feel better dead.

E' qui che Cantrell-Staley diventano "grandi", tra il mid-tempo folk grunge di "No Excuses" e le malinconiche trame elettro-acustiche della vivida "Nutshell". Bella rece.

ThirdEye (ha votato 10 questo disco) alle 3:23 del 22 agosto 2012 ha scritto:

Forse il loro più bello. Capolavoro.

tramblogy alle 19:18 del 2 luglio 2018 ha scritto:

quanto amo questo disco , riascoltandolo....che bello!!!!!!!!!!!!!!