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R Recensione

6,5/10

Across Tundras

The Rugged Ranges Of Curbs & Broken Minds

Non è stato affatto semplice accorgersi che, dopo un congelamento intermittente delle attività durato sei lunghi anni, gli Across Tundras si erano rimessi in carreggiata e avevano regalato un successore studio al modesto “Electric Relics” (2013): questione di fortuna, pazienza e di un algoritmo. D’altra parte, la didascalia che commenta il processo di composizione e registrazione di “The Rugged Ranges Of Curbs & Broken Minds” (“pulled from the jaws of defeat 2018-2019”) è più esplicativa di un intero comunicato stampa. Sconfitti dalle avversità li si era per un attimo davvero creduti, i ragazzotti nativi di Denver ma di stanza a Nashville, improvvisamente inghiottiti da un misterioso vuoto che, interrotto saltuariamente da produzioni circoscritte a tiratura limitata, faceva letteralmente a pugni con l’iperprolificità che li aveva caratterizzati nella prima parte del decennio (nove dischi in sette anni, tralasciando per amore di concisione i formati minori) e la cui distintività sembrava aver contagiato, piuttosto, la carriera del leader T. G. Olson (autore di sei dischi lunghi, a suo nome e in tandem, nel corso del solo 2018). Non si tratta di statistica spicciola: proprio il discorso sonoro intrapreso nei solchi solisti di Olson è indispensabile per cogliere il senso del ritorno degli Across Tundras, il cui suono – già in mutazione nel summenzionato “Electric Relics” – si ripresenta al pubblico ulteriormente cangiato.

Chi scrive è particolarmente affezionato all’esperimento stilistico intrapreso dagli Across Tundras nelle fasi iniziali della loro carriera, poi perfezionato nel sottovalutatissimo “Sage” (2011), ossia quello di un post metal evoluto il cui storico radicale hardcore sia stato svelto a favore dell’inserimento di indicali southern e classiche strutture di americana (senza, per questo, tendere verso lo sludge). “The Rugged Ranges Of Curbs & Broken Minds”, al contrario, si propone come disco di canzoni circolari che abbia rimpiazzato l’epica chitarristica con acute stilettate di nostalgia loneristica, dimesse ballate elettriche sulle quali la polvere del deserto riluce con particolare penetranza. La lenta (e un filo ripetitiva) title track è un grandangolo minimale che sembra accostare, per assurdo, Neil Young ai Comet Control: un ritorno, del tutto inaspettato, all’insegna del basso profilo. Non si tratta di un unicum: l’espansione della cubatura sonica, dove prevista, è tenuta sempre sotto controllo, in secondo piano rispetto al mesto borbottare di Olson (“Slow Down And Breathe” è un western rugginoso riassunto in un’hauntologica coda ambientale), all’addensarsi dei nuvoloni sullo sfondo (“Talkin’ Rust Cohle Existential Blues”), alle esigenze armoniche dell’insieme (arpeggi filtrati e slide guitar in “When We Were All One”, l’unico vero singolo della tracklist) o agli autoreplicanti schemi ritmici (con un missaggio diverso, “Whirlwind Reapin’” potrebbe suonare come un dub-blues di prima categoria).

Nel complesso non si tratta di un grande disco (l’economia di produzione si sente tutta) e, anzi, man mano che ci si avvicina al termine tende a farsi sempre più dimenticabile (“New War On The Range” cerca di riesumare, senza troppa fortuna, i fasti della fase pre-“Electric Relics”), quasi come se i sette brani qui contenuti non fossero altro che singole istanziazioni di un’unica idea. Eppure, c’è qualcosa di indefinibile che percorre la spina dorsale di “The Rugged Ranges Of Curbs & Broken Minds” e che esercita sull’ascoltatore un fascino magnetico: il fascino del declino, della disfatta, della decadenza. I più volonterosi implementino l’ascolto con i sette EP rilasciati a breve distanza dal full length, in cui ogni brano viene proposto in quattro versioni (tra remix e nuovi arrangiamenti).

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