R Recensione

8/10

Blackberry Smoke

Holding all the Roses

Il quarto lavoro dei capelluti, basettoni e barbuti sudisti della Georgia, uscito di fresco (febbraio di quest’anno) è una conferma ma ancora non una consacrazione. Nel senso che vale le opere che l’hanno preceduto e quindi è un gran bel sentire, ma non riesce a fare lo zompo finale verso l’apoteosi, che quindi viene rimandata a data da destinarsi. Avevo questa speranza, visto che il precedente “The Whippoorwill” del 2013 era vicino alla magnificenza, ma va bene così… ne uscissero di più di queste musiche vecchie come il cucco ma rese con passione e classe, applicazione e modestia, attraverso il dosaggio accurato degli arrangiamenti, l’uso eccelso di strumenti ed amplificatori e microfoni vintage a ricreare la perfetta imperfezione degli anni settanta.

Il quintetto preferisce nell’occasione incrementare la quota country del suo southern rock, farcendo il disco di chitarre acustiche in dose superiore al passato, e questo a parziale detrimento delle altre componenti del suo suono che sono soprattutto il blues ed il rock. Ciò non impedisce che l’album parta in quarta con l’hard rock sincopato a’la Bad Company di “Let Me Help You Find the Door”, il frenetico trapestio rock’n’roll con inserti bluegrass del brano che lo intitola tutto e poi subito dopo la vigorosa semi ballata “Living in the Song”, questa però un poco debole perché di melodia troppo ortodossa e “telefonata”, ed infine un altro risonante r’n’r “…Again” anch’esso scolastico, ma coinvolgente nel suo appagante ambiente chitarristico (impera l’uso di ampli Orange, i più croccanti e caldi che esistano per fare del rock moderato e rollingstoniano).

Il disco poi s’acquieta in una quasi serrata successione di ballate, la prima delle quali è la psichedelica, stordente “Woman in the Moon”: il frontman Charlie Starr (voce, chitarra, composizione) non è Gregg Allman ma la sua voce è intensa, personale e adulta quanto basta per evocare i capolavori dei padri del southern rock, insieme alle chitarre nell’occasione poderose e cariche di reverbero.

Splendida “Too High”, solcata da un arpeggio in minore che alterna il MI con il LA in maniera deliziosa, peccato solo che il ritornello molto country, in maggiore, non valga la squisita tensione trasmessa dalla strofa e la stemperi per buona parte. “Wish In One Hand” ripristina momentaneamente il rock ed è più Lynyrd Skynyrd dei Lynyrd Skynyrd stessi, mentre “Randolph Country Farewell” è un breve saggio all’acustica, in accordatura aperta, del leader Starr.

La musica corale riprende subito dopo colla ruffiana (per canoni da rocchettari) “Payback’s a Bitch”: sì, è commercialotta, ma la sapidità delle chitarre moderatamente distorte è impagabile e poi la parte centrale strumentale, guarnita dai uno dei rari assoli di Starr musicista estremamente parco nel mostrare la sua indubbia perizia, la tengono ben lontana dalla stucchevolezza.

Il trittico che conclude l’album comprende la semiacustica e scontata “Lay It All On Me” un country regolare con tanto di steel guitar (sempre Starr), l’acustica del tutto nonché percussionistica “No Way Back to Eden” che è uno di quei blues sognanti alla Allman Brothers che personalmente mi fanno impazzire, ed infine la pestona e risonante “Fire in the Hole”, nella quale il gruppo si lascia per una volta andare in jam session, ma senza esagerare come al solito (dura quattro minuti, del resto)

La chitarra acustica, suonata e registrata particolarmente bene (l’album è superbamente prodotto, senza comunque snaturare il solito suono coeso e ben distribuito del quintetto, dal loro concittadino Brendan O’Brien, grande attuale figura in sala di registrazione grazie al suo lavoro con King’s X, Pearl Jam, Neil Young, Train, Springsteen, Ac-Dc eccetera), fa comunella con il delizioso crunch delle Gibson di Starr e dell’altro chitarrista Paul Jackson e con il limpido tappeto disteso al piano e all’Hammond dal sobrio ma competentissimo Brandon Still, per realizzare questo elegante e appassionato revival di musica americana anni’70, né più né meno.

I Blackberry Smoke sono dei magnifici, intelligenti ed intensi interpreti ed autori di trame sonore fuori tempo, che però a questo livello diventano semplicemente senza tempo: molto calore, un pizzico di ruffianeria, tonnellate di destrezza e trasporto emozionale… un gruppo “analogico” in epoca digitale e tragicamente priva di sbocchi (anche) in campo musicale. Io li adoro, e spero che possano migliorare ancora. Scopriteli anche sul Tubo, e non badate alle basette orrende del cantante, guardategli le mani ed ascoltate la sua bella voce da uomo del sud.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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FrancescoB (ha votato 7 questo disco) alle 9:40 del 25 luglio 2015 ha scritto:

Descrizione molto interessante e disco da recuperare assolutamente, anche solo per i nomi riportati. Ripasso per il voto.

Giuseppe Ienopoli alle 11:17 del 25 luglio 2015 ha scritto:

Un somarello country in copertina non capita spesso ... anche per me merita recupero, ascolto e una balla di fieno!

FrancescoB (ha votato 7 questo disco) alle 13:07 del 25 luglio 2015 ha scritto:

Prime impressioni: scorre senza intoppi, qui siamo oltre il tradizionalismo, eppure i pezzi sono quasi sempre chicche. Sicuramente il giudizio sarà positivo.