Howlin Rain
Magnificent Friend
Quando leggi il nome di Ethan Miller ti si spalancano gli occhi per la gioia e ripensi a quella devastante forza della natura che prende il nome di Comets on Fire, alias la dimostrazione che si può fare revival rock prendendo come punto di riferimento gli anni ‘70 in maniera convincente e appassionante come si è sentito poche volte in giro (White Stripes, Black Keys, Wolfmother e pochi altri). Una furia vivente i Comets on Fire, garage-rock violento e low-fi oltre ogni limite, roba da stropicciarsi gli occhi per asciugare le lacrime di gioia procurate dal loro passaggio.
Ovvio quindi che una volta acquistati tanti crediti il buon Miller meriti molta attenzione per il progetto Howlin Rain (non ce ne voglia il John Moloney dei Sunburn hand of the manse che mantiene probabilmente una grossa quota nel progetto ma che non riusciamo per preconcetto amore nei riguardi di Miller a porre sullo stesso piano di quest’ultimo).
L’idea Howlin Rain non è ad ogni modo nuovissima in quanto Magnificent friend è il secondo album dopo l’esordio omonimo del 2006, disco da cui emergeva la volontà di approfondire l’altra faccia del rock 70s, non quindi quella caciarona e garage bensì l’anima in un certo senso più classica che spaziava tra country, rock’n’roll, blues e soul. E nonostante il feedback affiorasse un po’ qua e là (Calling lightning with a scythe) il nuovo corso andava inesorabilmente verso la tradizione di gruppi come Lynyrd Skynyrd, Free, Guess Who, Allman Brothers Band e compagnia bella. Insomma un revival più soft ed elegante ma allo stesso tempo meno mordace.
Magnificent friend non sembra discostarsi di molto dal filone se non forse per un maggiore approccio prog probabile conseguenza del raddoppiamento della formazione (da tre a sei membri). Così dopo la breve ouverture Requiem ci ritroviamo avvolti con Dancers at the end of time in un heavy-prog che unisce le prolissità a loro modo ultratecniche e magniloquenti di Yes e Deep Purple in un combo sonoro che mette in risalto il duo tastiere-chitarre. Contrasta un po’ il cantato di Miller che per tutto il disco si traveste in un John Fogerty (Creedence Clearwater Revival) d’annata restando probabilmente la miglior cosa di un disco altrimenti troppo prolisso e barocco. È vero, i pezzi belli non mancano, a cominciare dalle successive Calling lighting pt.2 (classic rock americano tra country e heavy-blues) e Lord have mercy (ballata bollente che passa da un piano jazzato soft all’immersione in un telo di tastiere che trascinano in un finale straripante). Già Nomads, altro southern rock classico, appare però un esercizio di stile che viene tenuto in piedi solo dallo straripante soul di Miller.
Peccato che la seconda parte del disco scorra in un accentuato declivio: El rey è un jazz-prog che nonostante l’ennesima splendido vocal di Miller appare decisamente troppo strombazzante con il suo arrangiamento stracarico di archi e tastiere. Goodbye ruby prova a rendersi più accattivante aggiungendo linfa nera con qualche accordo funk ma nel complesso non riesce a uscire dall’insistente schema prog-rock nemmeno quando svaria tra assoli blues, heavy e svariati wah-wah di sapore davvero antico. Aggiungiamoci la solita cascata di tastiere e una curatissima base ritmica e otterrete un pastrocchio che espone davvero troppa carne al fuoco. Infine Riverboat, asfittica nel suo classicismo e priva di mordente, è il pezzo peggiore del disco per la sua pochezza di personalità.
E allora col cuore in gola non resta che indicare la porta al caro Miller, suggerendogli magari di rispolverare l’esperienza Comets on Fire. E se giustamente non volesse tornare indietro potrebbe almeno sfoltire un po’ l’organico e concentrarsi sull’essenzialità della canzone. La voce ce l’ha. La chitarra pure. E allora perché non un bel disco solista?
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