R Recensione

8/10

Bardo Pond

Batholith

I Bardo Pond abbiamo ormai imparato a conoscerli e sappiamo quanto sia profondamente tragica la loro musica. Tragica ma potente, come avevano sublimato in maniera eccellente capolavori come Bufo Alvarius Amen 29:15 (1995), Amanita (1996) e Lapsed (1997). Che cosa aggiungere a quella triade meravigliosa senza cambiare stile e genere? Probabilmente nulla. E questo spiegherebbe anche semi-fiaschi come Ticket crystals (2006). Eppure oggi non sono qui per parlare male di Batholith, perché questo è uno di quei dischi che servono all’uomo medio per uscire dallo stato di trance in cui vive quotidianamente, esaltato dalle performance assai poco battagliere di gruppetti intriganti come Blood Red Shoes e Be Your Own Pet.

Per questo eccezionalmente non terremo conto del passato musicale dei Bardo Pond e lasceremo alle spalle i confronti per concentrarci sulle sei canzoni che compongono il disco. E, forse a questo punto è anche mellifluo aggiungerlo, si tratta di sei composizioni decisamente cupe e stranianti. Alienanti è la parola che serve davvero a rendere l’idea. Alienanti come la catartica A tune, primo micidiale mix di feedback chitarrosi a creare un wall of sound che si muove lentissimo (doom), ipnotico, malinconico e alieno (drone), il tutto all’insegna di quell’ormai classica neo-psichedelia (Warlocks, Dead Meadow, Roy Montgomery) che parte dal rock per viaggiare tra stoner, shoegaze e space music.

Push yer head è quanto di più vicino al blues i Bardo Pond siano in grado di produrre. L’impressione è di ascoltare dei Black Keys distorti e malati immersi in un calderone viscido e scontroso. Hypnotists fa capire già dal titolo quale sia il programma: i suoni si fanno più morbidi ed esotici all’insegna di una psichedelia cosmica eterea e volatile sullo stile di certi Acid Mothers Temple.

Splint parte blanda ma poi sfodera l’ennesima terribile cascata di chitarre proposta dai fratelli Gibbons su cui di fatto la linea melodica viene delineata dalla splendida performance del batterista Ed Farnsworth fino al ritorno alle litanie iniziali, in uno schema classico del post-rock.

Slip away non ha esitazioni invece: un Gibbons costruisce la solita muraglia noise mentre l’altro parte con una jam acido-psichedelica ficcante e ispida. Ascoltando il soave cantato melodico e l’accompagnamento della base ritmica sembrerebbe di sentire una canzone psych-rock abbastanza classica sullo stile degli ultimi Warlocks, anch’essi alle prese con una malinconia graffiante degenerante spesso in malessere devastante per intensità. La differenza è tutta nella consistenza ferrosa e glaciale della valanga di feedback che invade ogni spazio riempiendo anche il più minuscolo pertugio.

A chiudere le danze c’è SSH, ultimi dieci minuti di space-drone alienante. Assoli ora innevati ora incendiari, una batteria imponente in assetto da guerra, l’intreccio tra le chitarre e l’insieme, tutto ciò forma una “ballata” lisergica e incresciosa per i tumulti che riesce a creare in testa e nel cuore. Cade ogni capacità di resistenza e ci si apre ad una insofferenza aperta per tutto ciò che sta attorno.

Insomma andateci piano: la musica dei Bardo Pond può nuocere gravemente alla salute; è musica di rivolta psicologica prima che materiale, in grado di esaltare the dark side of the man. Musica fatta di droga pesante che dà l’impressione che una volta ascoltata non si torni facilmente indietro. Uomo avvisato…

V Voti

Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 6 voti.
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REBBY 5/10
Slisko 8/10

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