Deerhunter
Cryptograms
Un figlio degenere è germogliato in America, ad Atlanta.
Responsabile del suo sviluppo è l’etichetta chicagoana cardine per tutto il giro ambient post-rock e della sperimentazione sonora tout-court: la nostra amata Kranky .
Parliamo di ‘Cryptograms’ dei Deerhunter, quintetto capitanato dallo psicotico cantante Bradford Cox : il secondo travagliato album di una delle band più disastrate del momento .
Registrato in due diverse sessioni, regolarmente interrotte a causa della scarsa stabilità mentale del frontman Cox e della poca fiducia nei propri mezzi da parte della band (ma anche dalla morte di un componente), ‘Cryptograms’ è un album veramente ambiguo : ci sono le folate gelide alla Joy Division, i voli eterei shoegaze in stile My Bloody Valentine, il rimuginare drone-ambient della casa madre e il ‘pop’ più psichedelico e drogato; il tutto legato ad una costante sensazione di trascuratezza e incompiutezza generale che contagia sempre più ad ogni ascolto.
Sia chiaro, le influenze citate non sono omogenee in tutte le dodici tracce del disco, e sicuramente non era intenzione della band lavorare in tal senso: ciò che affascina non poco è l’aura di perversione e di psichedelia malata che è possibile percepire, il senso di sporcizia tenuto sempre ad un passo dall’esplodere in un marasma lisergico incontrollato.
Dicevamo delle due sessioni occorse per registrare l’album: ne risultano una più cupa ( il pensiero va a certi risvolti post punk versante dark) e debitrice delle fosche atmosfere ambient della label di Chicago che li ospita ; l’altra invece suona a tratti quasi pop, ma sempre mantenendo quell’ alone psichedelico e ‘malato’ .
Della prima fanno parte l’intro, quasi tre minuti di voci in loop, scrosci d’acqua e frequenze siderali che ci portano alla titletrack : una voce da depravato dopo un lavaggio del cervello a salmodiare su scansioni ritmiche post punk e chitarre taglienti . Una canzone di un cinismo da restare raggelati.
‘Red Ink’ e ‘White Ink’ sono le due facce della stessa medaglia ambient-drone : la prima un organo chiesastico etereo e simil-voci amorfe a nuotare sotto la nebbiosa superficie (chi ha amato il progetto Grouper di Liz Harris potrebbe gradire), la seconda una bordata chitarristica reiterata e dronata capace di sicura presa romantica.
Con ‘Providence’ si vola su un tappeto di mistiche melodie orientaleggianti sbrindellate e affastellate in loop ; mentre l’inizio di ‘Octet’ sembra un altro esperimento ambient, per rivelarsi invece un’ascensione strumentale di chitarre space rock .
‘Spring Hall Convert’ con le sue voci in lontananza, i delay in sovraincisione sempre ad un passo dal baratro a montare una malinconia inesorabile ci fa entrare, dopo tanto sognare ad occhi aperti, nella parte ‘pop’ del disco .
Che ad un primo ascolto sembra maggiormente immediata e decifrabile: ma concedete il tempo necessario a queste psycho-melodie, e vi si insedieranno nel cuore per non uscirne che a fatica.
È qui quel senso di presagio, quell’eco lisergico e onirico capace di farci perdere: si ascolti una dolcissima ‘Strange Lights’ cosi’ Yo La Tengo prima maniera o ‘Hazel st’ con le sue atmosfere color seppia : musica per quando si guardano le vecchie fotografie dei bei tempi andati; con l’album di famiglia in una mano e qualcosa per stonarci nell’altra…
Ci si avvia alla fine con le vocine degenerate quasi sixties e le saltellanti percussioni di ‘Heaterwood’, che col suo strano fischietto finale sancisce, lasciando un punto interrogativo sospeso a mezz’aria, la fine del disco .
E pensare che non avevano fiducia in se stessi ….
Tweet