R Recensione

7/10

Expo 70 vs Be Invisible Now!

Split

La Boring Machines è indubbiamente una delle etichette emergenti più interessanti di casa nostra con il suo parco di riferimento squisitamente psichedelico decisamente poco commerciale ma molto interessante. Un paio di songwriter di razza (Jessica Bailiff, Bob Corn) ma soprattutto tanta bella roba sperimentale e strumentale (Boring Machines, Satan is my Brother oltre alle due realtà dello split odierno). Se non siamo in presenza di una piccola scena c’è comunque di che sbattere le ciglia per lo possibilità di poter godere una simile realtà in Italia.

A conferma del buon momento dell’etichetta esce questo split tra Expo’70 e Be Invisible Now!, due tracce a testa per oltre quaranta minuti di musica. Expo’70 è il progetto di Justin Wrights, uno che si è divertito a suonare in alcune band californiane abbastanza misconosciute (Living Science Foundation, Electric Sky) prima di mettersi in proprio realizzando tonnellate di materiale da cui viene estrapolato nel 2007 il suo esordio ufficiale Animism. Ascoltando le due composizioni qui presenti emerge netto il ricordo di quella musica cosmica squisitamente ‘70s. Quello space-rock tipicamente kraut e parzialmente ambient che prende le mosse dai vari Tay Mahal Travellers, Popol Vuh, Tangerine Dream, Ash Ra Tempel.

In Heir of serpents una consistente serie di synth e tastiere crea un tappeto sonoro spirituale e minimale su cui interviene una chitarra acustica strascicata presto accompagnata da un paio di chitarre elettriche delle quali una ripete ossessivamente un riff con la costanza di un rintocco di campana, l’altra invece spazio in un blues acido, fino allo spegnimento quasi improvviso. Seeker of sonic auras invece elimina del tutto ogni improvvisazione impastando un sound ancora più gelido, claustrofobico e inquietante. L’impressione però è che si spezzi l’equilibrio che caratterizza la prima traccia dando adito all’impressione di una carenza di idee.

Be Invisible Now! è anch’esso il progetto solista nato nel 2001 del trevigiano Marco Giotto, dopo un passato ‘90s come musicista rock più convenzionale.

I riferimenti stilistici sono grosso modo gli stessi già elencati in precendenza per Expo’70 ad eccezione forse di un maggiore amore per i primi Pink Floyd periodo A saucerful of secrets-Ummagumma. Direttamente da quei dischi sembra infatti provenire il drumming forsennato alla Nick Mason che si fa largo tra i crismi digitali de I fiori devono morire. Percussionismo a tratti violento e tribale di forte impatto che impreziosisce un clima misterioso e alienante.

L’ultimo giardino dietro la chiesa parte con un vortice di synth su cui si staglia un drumming dapprima scandito e regolare poi asincrono e sbeffeggiante. L’uso dell’elettronica crea un clima ostile, minaccioso e fortemente meccanico, un’atmosfera da apocalisse nucleare se non da dicotomia uomo-macchina.

La potenza del disco (e in particolare della seconda parte) impone allora una certa attenzione per questi artisti che, pur mostrando una forte derivatività dai mostri sacri dei ‘70s, rielaborano ottimamente quelle istanze con una serie di quei “viaggioni” psichedelici che nel panorama attuale si credeva fossero in grado di realizzare solo calibri grossi come Bardo Pond, Brian Jonestown Massacre, Warlocks e Dead Meadow.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 2 voti.
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onga 8/10
merman 6/10

C Commenti

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Cas alle 12:47 del 4 luglio 2008 ha scritto:

i fiori devono morire? flowers must die! chiarissima citazione da schwingungen degli ash ra tempel...comunque, mi hai fatto venir voglia di ascoltare quest'album, mi piace la derivatività!

onga (ha votato 8 questo disco) alle 23:49 del 13 luglio 2008 ha scritto:

RE:

oltre alla ovvia citazione il nostro ha nascosto tra le righe del titolo una serie di cose sue personali.. è più diabolico del previsto..