R Recensione

6/10

Hawkwind

The Machine Stops

Febbraio 1972: alla sala Roundhouse di Londra, durante un benefit dedicato ai Greasy Truckers, gli Hawkwind, due album alle spalle, suonano "Silver Machine", un boogie con testo vagamente ispirato alla fantascienza ed ai viaggi nel tempo. La versione originale, cantata da Rob Calvert, viene rimixata in studio sostituendo alla parte vocale originale quella di un certo Ian Killmister, in arte Lemmy. Il pezzo diventa un successo nazionale, raggiungendo il terzo posto della classifica inglese, e, da allora, una sorta di marchio di fabbrica del gruppo.

Aprile 2016: “The Machine Stops” è il nuovo album degli Hawkwind a quarantasette anni dagli esordi, oggi un pezzo di storia del rock, sempre capitanati dal fondatore e chitarrista Dave Brock. Il concept album è ispirato ad una novella di fantascienza di E.M. Forster, lo scrittore britannico di “Casa Howard”, che ha immaginato un’umanità soggiogata da una onnipotente macchina che provvede a tutti i bisogni individuali. Fino a che qualcosa si rompe…  

Se il titolo alluda anche ad una prossima fermata dei voli di quella macchina argento di tanti anni fa, e quindi dei suoi creatori, non è dato sapere. Certo è che il modello, a giudicare da quello che si ascolta, dimostra tutto il peso del tempo passato.  Con il rispetto dovuto agli inventori dello space rock, autori di opere che figurano in ogni storiografia rock e  tuttora titolari di un culto devoto rappresentato nelle Hawkfest annuali in giro per il mondo, “The machine stops” è un concept album come si sarebbe fatto negli anni settanta, con tutti i clichès del genere (l’intro con enfatica voce narrante, “All Hail the Machine”, i  preludi strumentali di raccordo fra le fasi della narrazione,“Katy”, “In My Room” ,  l’epilogo circolare “Lost in Science” ), e la generale sensazione che il percorso narrativo obbligato abbia in qualche modo condizionato, soggiogandola, la struttura dell’opera musicale. Quello che esce meglio dal disco è in fondo ciò che Dave Brock e compagni sanno da sempre fare meglio: ovvero un protopunk dalla struttura elementare alimentato a base di synth e cantato con piglio da hard rockers. Categoria qui rappresentata da diversi episodi, ciascuno con le varianti di rito, dal giroscopio psichedelico di “The Machine” alle pesanti progressioni di “King of the World”, fino agli ultra rock zeppi di chitarre e tastiere di “Synchronized Blue” o del singolo “Solitary Man”. Il peggio è rappresentato da  “Hexagon”, episodio davvero melodicamente poco felice con un cantato in falsetto appoggiato su base elettronica, e dai melismi elettronici di “The Harmonic Hall”,  roba di grana davvero un po’ troppo grossa. Il meglio, direi, da un episodio apparentemente sottotono, “Tube”, un collage di voci e suoni che progredisce su una bella intuizione armonica aperta del pianoforte. Sottigliezze che risulteranno certo indifferenti ai fans pronti ad accogliere e venerare i loro idoli nella imminente serie di date live in giro per il mondo, ove si promette, spettacolo nello spettacolo, un fantasmagorico light show di accompagnamento all’opera . Ecco, forse è quello il modo migliore per  apprezzarli ancora, soffiare via la polvere del tempo dal cd  o vinile, e fare finta che stiano suonando come all’isola di Wight, fuori dal perimetro del festival per protesta contro il prezzo del biglietto, con Jimi Hendrix fra il pubblico. Se siete interessati, lo si potrà fare anche in Italia, nell’unica data nazionale prevista a  Padova, il prossimo 8 luglio, al festival Close to the moon.

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