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R Recensione

6/10

White Hills

Frying On This Rock

Mi capita, sotto gli occhi, una foto autografa di Chris Carlone. Ammazza quanto sono brutti, gli White Hills. Duo di New York (wait a minute: e Kid Millions alla batteria, dove pensiamo di metterlo?) il cui chitarrista è uno zombie lungocrinito con gli occhi infossati nel teschio ed un improbabile trucco post catacombale che avrebbe fatto arrossire persino il sempre refrattario alla vergogna fu Lux Interior. E, mehercule, quant’è brutta questa musica. Fastidiosa, ciclica, ripetitiva. Canzoni che si reggono su un unico riff, notevole impatto valvolare che va in pezzi dopo un paio di minuti, psichedelia allucinata via distorsione e ieratica iterazione, estenuante stato psicofisico annacquato da strati e strati di maniacali sovraincisioni. In comune con gli Hawkwind, forse, l’estremo feticismo per il vinile – da parte di chi produce come da quella di chi compra, verrebbe da dire… – e certi effettacci galattici da space rockers incalliti.

Tutto brutto, niente da aggiungere. Ma quando mai la prerogativa degli White Hills, d’altro canto, è stata quella di piacere davvero? “Frying On This Rock” finisce di dire ciò che il monolitico “H-P1”, pochi mesi addietro, aveva lasciato sfumare nell’indeterminatezza di un’opera largamente bipartita nell’assiduo corteggiamento di rock d’antan ed elettronica kosmische: bando alle mezze misure. Si contano a bizzeffe, sulle dita di (n) mani, i dischi così pensati e costruiti a partire dall’esplosione virulenta del kraut teutonico di quaranta e passa anni fa. Eppure nessuno, ancora oggi, riesce a caricarsi della responsabilità di codificarlo, con il linguaggio corrente. Un peso troppo gravoso? È una risposta plausibile. Ulteriore ragione, se possibile, per considerare gli americani uno dei più validi e solidi approdi all’estrema allucinazione materica del “Nuovo” Millennio.

Pur tuttavia gli elogi non danno certo da mangiare. E non molti elogi possono essere spesi, nello specifico, per “Frying On This Rock”, che abbandona quasi del tutto le contusioni sintetiche privilegiando l’intontimento noise, la spigolosa ottusità di costruzioni sempre, rigorosamente uguali a loro stesse. Molto bene si era espresso, nel merito, “H-P1”, di cui spesso il suo successore non pare essere altro che un’appendice particolarmente caricata sul versante motorik. I risultati migliori si toccano in “Song Of Everything”, smozzicata tra muri di suono, monosillabi futuristici, tumultuose foschie psichedeliche profumate di spagnolismi. “Pads Of Light” è una riedizione di “The Condition Of Nothing” in chiave garagistica, elogio dell’aggressione fisica e del colpo gratuito a ferire. Il passo marziale e l’imperturbabilità infernale di “Robot Stomp” provocano ossessionanti emicranie, sfiorando il meccanicismo autistico dei My Disco, prima di far sbocciare dal corpo principale micro variazioni post metalliche di terribile efficacia. Qui finiscono i pregi. Assolutamente superflui il quarto d’ora conclusivo di “I Write A Thousand Letters (Pulp On Bone)”, stiracchiato space rock che rotola sui tom, e la prova di forza di “You Dream You See”, fiaccata al suo interno da vetusta chincaglieria d’altri tempi.

Un piccolo passo indietro, prima o poi, non si nega a nessuno. Le belle parole già spese per il loro curriculum non vengono più di tanto sminuite. Nota a margine: già esaurita, in pre-ordine, la bicroma versione limitata dell’LP.

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Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 3 voti.
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motek 5,5/10

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Voltaire (ha votato 7 questo disco) alle 13:43 del 19 ottobre 2012 ha scritto:

Avevo preso tempo fa una copia Pink Vinile. Diciamo che dopo alcuni ascolti li avevo abbandonati nella sacca dei dischi da rivendere. Ieri sera sono andato a vederli live. Come di solito succede il disco ha preso un altra forma. Sono rimasto molto stupito della performance e sto rivalutando il disco. Forse 6 è un pò poco....... metterò il voto tra qualche giorno.