The Tremolo Beer Gut
You can't handle...
The Tremolo Beer Gut, non il nome di una bettola danese nella quale è facile uscire più tremolanti di come si è entrati, ma il nome che, pur non staccandosi dalla Danimarca, identifica l’alticcio quartetto formato da The Great Nalna e Jengo (chitarra, sperando che il nome sia una storpiatura di quello del re della chitarra jazz, Django), Sunding (basso) e Yebo (percussioni). I quattro non raccomandabilissimi figuri ci regalano You can’t handle... (il verbo è riferito, naturalmente, allo stesso nome della band), un album la cui copertina potrebbe essere stampata in sottile carta da manifesto e incollata sulla parete notturna di una qualche cantina antiproibizionista con una riduzione di colla vinilica e grog.
Sedici tracce per rievocare, senza voce ma con molti grovigli strumentali e con infinite sinergie, mondi lontanissimi. Per non cadere nella solita trappola del golden age thinking e della nostalgia, che poco ci compete, basterà definire questo disco un godurioso miscuglio di surf e rock’n’roll ad uno stato che sfiora il puro, con infinite citazioni dal mondo spaghetti western che mettono d’accordo sia gli amanti sinceri dell’era Morricone (a cui i quattro rendono splendidamente omaggio in Memento Morricone) quanto i (più appestanti) tarantiniani che ancora guardano a Kill Bill come l’unica saga della storia del cinema degna di essere ricordata e a Quentin come unico Zoroastro.
Da sei anni non facevano un disco e così hanno deciso di scriverne uno che mettesse d’accordo davvero tutti, in una sorta di - cito David Fricke - esperanto strumentale che viaggia tra Sessanta e Settanta, con incursioni colte anche nella musica classica, come testimonia il bellissimo arrangiamento della prima Gnossienne di Erik Satie restituita qui per chitarra elettrica e clavi. Eppure, nonostante i divertenti citazionismi, il disco non si riduce a un nostalgico concentrato chitarristico: moltissime sono le collaborazioni (Jon Spencer, Mikkel Borg Bjergsø, Flavia e Martin Couri, Cristina Martinez, Jacob Gram Alsing, Chris Barfield e altre ancora) e quindi anche gli interventi stilistici e strumentali, dagli arpeggi pentatonici e arabeggianti di Planet Urf!, dalle atmosfere spiritiche di Inferno e The tremolo death way alla cantabile melodia finale per armonica di Date a the show club, fino alle incursioni tastieristiche e di Hammond. D’altra parte, ci insegna ancora Fricke, no band is an island.
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