Band of Horses
Infinite Arms
Siete già stufi dei nuovi (indie)rocker barbuti? Se la vostra risposta è negativa potete dare il bentornato ai Band Of Horses. Il gruppo in (ex)quota Subpop che qualche anno fa aveva stupito per quel modo particolare di rivisitare la tradizione americana con un’attitudine atipicamente grunge. Barbe incolte, camice a scacchi, aspetto sgualcito e chitarre spiegate, ma al rallentatore: vi ricordate “First Song”?
Sono passati ben sei anni dall’ottimo "Everything All The Time" e tre dal discreto "Cease To Begin" e la band dei cavalli è cresciuta sia in numero, con l’ingresso di Tyler Ramsey e Bill Reynolds, che in maturità.
È lo stesso Ben Bridwell a dire che questo "Infinite Arms" è in qualche modo il primo vero album dei Band Of Horses. Definizione per alcuni versi motivata, anche se i dischi precedenti rimangono, a mio parere, un gradino più in alto per imprevedibilità e pathos. Il nuovo disco, il primo per una major (Columbia), benché meno carico dal punto di vista emozionale, ha però dalla sua una coerenza ed una corposità sonora latenti nei capitoli precedenti. Si potrebbe dire che con "Infinite Arms" gli Horses abbiano trovato il loro sound completo, colmando una volta per tutte quelle mancanze tecniche che costringevano la band a dimenarsi tra una dimensione acustica ed una elettrica.
Se "Everything All The Time" era il disco della malinconia e "Cease To Begin" quello della tensione, "Infinite Arms" è il disco delle ballate aperte, degli squarci azzurri oltre la coltre. Se prima era Neil Young la pallida luce che guidava i “cavalli” , ora ci sono gli Eagles o addirittura i Beach Boys che si ergono come un pieno sole in un cielo terso da vertigini, mentre la mandria si può disperdere in una corsa liberatoria verso la frontiera.
Come mostra la copertina stessa del disco anche la notte è illuminata in questa nuova ricerca degli Horses, una ricerca della natura che non potendo essere pionierismo diventa omaggio devoto e sincero alla tradizione americana delle grandi pianure, di una frontiera che, sconfitta dalla storia, rimane viva nell’immaginario. Non è un caso che l’unica pausa del disco è rappresentata da un brano come “Factory” che cerca forzatamente di trascinare i “cavalli” nelle classifiche mainstream risultando però troppo pomposo e artefatto.
Per il resto "Infinite Arms" è un album sopra la media dove la genuinità dei nostri si trasforma in semplici ed efficaci sferragliate di rock come “Compliments”,” Laredo”, “Dilly” e ”Northwest Apartment”, e più spesso in sognanti ballate come “Blue Beard”, “Way Back Home”, ”Evening Kitchen”, ”Older”, “Trudy”, e soprattutto la splendida “Infinite Arms”.
Forse neanche stavolta, come già successo con il disco precedente, ci saranno brani capaci di resistere al tempo come le ormai inossidabili “The Funeral”, “First Song” e “Great Salt Lake”, ma l’olimpo del rock è sempre più vicino. Non a caso i Band Of Horses proprio quest’ estate saranno in tour a dividere il palco con i Pearl Jam. Da sentire.
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