Black Joe Lewis & The Honeybears
Tell Em What Your Name Is!
Ti arriva così, dimprovviso, tra capo e collo. Senza bisogno di datazione cronologica, plebiscito pitchforkiano, esaltazione strumentale: semplice e diretto come uno schiaffo in pieno volto, ed in effetti è una delle sensazioni più azzeccate per metaforizzarlo. Potrebbe essere uscito nel 1970, ed essere diventato manuale di storia da tramandare ai posteri: esce nel 2009, ed il suo figurone lo fa lo stesso. Senza magari la ola da stadio, di quelle che si scatenano sotto i colpi degli anthem o degli assoli a quindicimila note ciascuno (e tonnellate di decibel mal smaltiti). Avrebbe potuto essere uno dei cavalli della battaglia della Motown, esce invece per la Lost Highway: bene comunque, non rischierà certo un lynchaggio, almeno non da parte nostra.
Signori e signore, vi presento Black Joe Lewis (& The Honeybears).
Mezzora di tiro, urla, sudore e fuoco nelle vene. A dispetto del pullulare di pre-, post- e revival. Tell Em What Your Name Is! è groove sin dal monito, un fucile puntato sulle tempie di chi suona e di chi fruisce, pronto a sgorgare rnr di piombo. Sai mica che ti chiami Berlusconi? Se ne devono accertare, con fermezza da gangsters di Little Italy. È il disco che, tutto sommato, non ti saresti mai potuto immaginare. O forse sì, anche a memoria, nota per nota, fraseggio su fraseggio non è un copione nuovo, vero? ma certo non così. Scommetto che non ci crederete, ma questa è musica creata apposta per levare dalla testa qualsiasi dubbio: nessuna doppia lettura, nessun insidioso gioco. Semplicemente, dieci pezzi di vetro da conficcarsi accuratamente nei padiglioni auricolari, carrarmati che livellano qualsiasi asperità per ballonzolare su di unidea di percorso meravigliosamente dritta, genuina, manifesta. È la polvere che si alza dai vecchi vinili dei prossimi, spazzata via dallamplificatore vintage a (tot) volt.
Signori e signore, vi avrei voluto presentare con tutto il cuore anche James Brown, se solo avesse deciso di rimanere un po di più con noi. Il nostro amico Joe, però, ve lo potrà raccontare sicuramente meglio di me. Comincia a darvene già un assaggio nello shake funk rock di Gunpowder: riff killer, tastiera ricoperta dai fiati, la sguaiatezza della voce. Poi arriva Sugarfoot, plotone desecuzione al ritmo di basso e tromba in un trascinante boogie anni 60. Infine Im Broke, soul pianistico ma, sotto sotto, ancora incazzato - ed unico brano sopra i quattro minuti, in un taglia e cuci fatto di moltissimi due e tre. Roba da stropicciarsi gli occhi, sturarsi le orecchie, controllare il calendario e ritornare, con stupore, a maneggiare la puntina del giradischi. Buttando nel cestino, nel frattempo, tre quarti dei languidi mestieranti del Nuovo Millennio.
Muso duro ed attitudine da strada, quella di Lewis, spesso al centro dellattenzione, col suo gessato, la sua chitarra (in Boogie come volevasi dimostrare si lancia addirittura in un tentativo dassolo) e la sua imperitura maleducazione vocale. Ma, in mezzo a tutta questa ruvidità - cè di che soddisfare i propri sensi - come se la cavano gli orsetti di miele? Ebbene, si fossero chiamati con un altro, improbabile zoonimico, stile Fireboars et similia, il discorso non sarebbe cambiato poi molto. Li immaginiamo già, con Rayban calati sugli occhi, palliata cinta attorno alla vita, a fare il giro del palco gridando Toga! Toga! Toga! (Big Booty Woman), o a marciare verso il pubblico, mentre la batteria frantuma, a passo militare, un rnb harperiano, il tempo necessario per fare fuoco (Master Sold My Baby), offrendo nel backstage, intanto, una delizia strumentale che pone, in un testa a testa non ben specificato, Sly & The Family Stone e Frank Zappa (Humpin). Alla fine, dal nulla, esce fuori Please Pt. Two ed il suo urlo dannatamente rock. Una cartolina da stampare allistante, per provare lebbrezza di sentire il profumo del blues e la consapevolezza di essere presenti, per gustarla.
Ci sono dischi che non hanno bisogno di parole. Per tutto il resto (cit.)
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