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R Recensione

8/10

Black Joe Lewis & The Honeybears

Tell ‘Em What Your Name Is!

Ti arriva così, d’improvviso, tra capo e collo. Senza bisogno di datazione cronologica, plebiscito pitchforkiano, esaltazione strumentale: semplice e diretto come uno schiaffo in pieno volto, ed in effetti è una delle sensazioni più azzeccate per metaforizzarlo. Potrebbe essere uscito nel 1970, ed essere diventato manuale di storia da tramandare ai posteri: esce nel 2009, ed il suo figurone lo fa lo stesso. Senza magari la ola da stadio, di quelle che si scatenano sotto i colpi degli anthem o degli assoli a quindicimila note ciascuno (e tonnellate di decibel mal smaltiti). Avrebbe potuto essere uno dei cavalli della battaglia della Motown, esce invece per la Lost Highway: bene comunque, non rischierà certo un lynchaggio, almeno non da parte nostra.  

Signori e signore, vi presento Black Joe Lewis (& The Honeybears).  

Mezz’ora di tiro, urla, sudore e fuoco nelle vene. A dispetto del pullulare di pre-, post- e revival. “Tell ‘Em What Your Name Is!” è groove sin dal monito, un fucile puntato sulle tempie di chi suona e di chi fruisce, pronto a sgorgare r’n’r di piombo. Sai mica che ti chiami Berlusconi? Se ne devono accertare, con fermezza da gangsters di Little Italy. È il disco che, tutto sommato, non ti saresti mai potuto immaginare. O forse sì, anche a memoria, nota per nota, fraseggio su fraseggio – non è un copione nuovo, vero? – ma certo non così. Scommetto che non ci crederete, ma questa è musica creata apposta per levare dalla testa qualsiasi dubbio: nessuna doppia lettura, nessun insidioso gioco. Semplicemente, dieci pezzi di vetro da conficcarsi accuratamente nei padiglioni auricolari, carrarmati che livellano qualsiasi asperità per ballonzolare su di un’idea di percorso meravigliosamente dritta, genuina, manifesta. È la polvere che si alza dai vecchi vinili dei prossimi, spazzata via dall’amplificatore vintage a (tot) volt.  

Signori e signore, vi avrei voluto presentare con tutto il cuore anche James Brown, se solo avesse deciso di rimanere un po’ di più con noi. Il nostro amico Joe, però, ve lo potrà raccontare sicuramente meglio di me. Comincia a darvene già un assaggio nello shake funk rock di “Gunpowder”: riff killer, tastiera ricoperta dai fiati, la sguaiatezza della voce. Poi arriva “Sugarfoot”, plotone d’esecuzione al ritmo di basso e tromba in un trascinante boogie anni ’60. Infine “I’m Broke”, soul pianistico – ma, sotto sotto, ancora incazzato - ed unico brano sopra i quattro minuti, in un taglia e cuci fatto di moltissimi due e tre. Roba da stropicciarsi gli occhi, sturarsi le orecchie, controllare il calendario e ritornare, con stupore, a maneggiare la puntina del giradischi. Buttando nel cestino, nel frattempo, tre quarti dei languidi mestieranti del Nuovo Millennio.  

Muso duro ed attitudine da strada, quella di Lewis, spesso al centro dell’attenzione, col suo gessato, la sua chitarra (in “Boogie” – come volevasi dimostrare – si lancia addirittura in un tentativo d’assolo) e la sua imperitura maleducazione vocale. Ma, in mezzo a tutta questa ruvidità - c’è di che soddisfare i propri sensi - come se la cavano gli orsetti di miele? Ebbene, si fossero chiamati con un altro, improbabile zoonimico, stile Fireboars et similia, il discorso non sarebbe cambiato poi molto. Li immaginiamo già, con Rayban calati sugli occhi, palliata cinta attorno alla vita, a fare il giro del palco gridando “Toga! Toga! Toga!” (“Big Booty Woman”), o a marciare verso il pubblico, mentre la batteria frantuma, a passo militare, un r’n’b harperiano, il tempo necessario per fare fuoco (“Master Sold My Baby”), offrendo nel backstage, intanto, una delizia strumentale che pone, in un testa a testa non ben specificato, Sly & The Family Stone e Frank Zappa (“Humpin’”). Alla fine, dal nulla, esce fuori “Please Pt. Two” ed il suo urlo dannatamente rock. Una cartolina da stampare all’istante, per provare l’ebbrezza di sentire il profumo del blues e la consapevolezza di essere presenti, per gustarla.

Ci sono dischi che non hanno bisogno di parole. Per tutto il resto… (cit.)

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Voto degli utenti: 6/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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Alessandro Pascale alle 17:07 del 20 novembre 2009 ha scritto:

questo disco è una ficata! Black music classica come dio comanda. grazie marco di avermeli fatti scoprire!