Bruce Springsteen
Magic
Qualche volta le canzoni parlano da sole, scavano nei solchi della storia, tratteggiano il volto umano che fa capolino dalle sfaccettature del prisma in cui s’inquadrano i dibattiti e le problematiche dell’analisi critica. È la “differance”, come dice Derrida, il linguaggio non potrà mai esprimere compiutamente l’essere, al più si limiterà a sorvegliarne le tracce. Non è questione di “ho visto il futuro del rock’n’roll” o di un “Dylan con un vocabolario limitato”, quindi. Qui non c’entrano i gusti, le onorificenze, i titoli di studio. Bruce Springsteen è stato il musicista più influente della sua generazione, punto.
Pur non condividendo la cultura enciclopedica di un Tom Waits, l’ispirazione corsara e borderline di Neil Young, la prosa arcigna e letteraria di un Lou Reed, egli ha compreso meglio di tutti lo spirito del proprio tempo, ha scrutato a giro d’orizzonte l’umore della sua terra e della sua gente. Ed è invecchiato con loro. Grazie a lui il rock è sceso bruscamente dal piedistallo gentilizio su cui si era issato all’inizio degli anni ’70, il canzoniere popolare dei neri ha fraternamente abbracciato quello dei bianchi, nelle assemblee del sindacato o nelle missioni della chiesa metodista più che nelle “convention” della controcultura, la musica da ballo ha conosciuto la sua “Dichiarazione universale…”, il vangelo profano che ne punteggia le danze.
Dopo The Rising (in cui confermava la sua vocazione di apostolo del sogno americano, lirico patrono della New York ferita dagli attentati dell’11 settembre), l’erratico Devils and Dust e l’album di cover We shall overcome – The Pete Seeger’s sessions (quasi un simbolico passaggio della fiaccola di cantastorie civico e democratico), il vecchio ragazzo di Freehold sembra intenzionato a chiudere il periodo acustico inaugurato ai tempi di The ghost of Tom Joad (album tutto sommato modesto, fatta eccezione per il maestoso, insuperato poema omonimo) ricongiungendosi ai longevi compagni della E-Street Band.
Confesso di essermi avvicinato al nuovo Magic (Columbia, 2007) accompagnato da un certo timore reverenziale (del tipo, “…ma proprio io devo recensirlo? Cazzo no, lasciamolo a qualcun altro ‘sto compito ingrato…”, poi visto che nessuno si faceva avanti…) e generazionale (perché, si sa, il tempio eretto dalla memoria rischia di sembrare un cumulo di rovine allo sguardo spassionato del presente, perché al “Boss” come si fa a non volergli bene? E infine perché, come confessò quel pezzo di merda di Kappler al nostro Enzo Biagi (a proposito, riposa in pace vecchio mio…), “Mai tornare dove si è stati troppo felici”), timore in buona parte fugato da un ascolto sereno e ripetuto.
Radio Nowhere romba e graffia in apertura, come un animale selvatico recluso in gabbia per troppo tempo che si ritrova improvvisamente libero. La E-Street pompa come un mantice sulla vampa del ritmo trascinando i volumi a livelli mai toccati dai tempi di Born in the U.S.A., tanto che ad un certo punto sento quasi l’impulso di arrotolarmi una bandana intorno alla fronte, indossare una maglietta strappata poco sopra l’ombelico e fuggire in moto verso il tramonto con una bionda dai capelli cotonati alla Debbie Harry. Come sempre ha ragione lui, Bruce: “I just want to hear some rhythm / i just want to hear your rhythm”. E stop. Il sospetto di essermi intrufolato in una sfasatura spazio-temporale alla Einstein-Rosen (o alla “Ritorno al futuro” si parva licet) è confermato dall’hard-soul di You’ll be comin’ down e da quello più morbido e ballabile di Livin’ in the future (puro Tamla sound), entrambi fasciati da una patina “synthetica” e da calde vibrazioni overground ottantesche. Complice anche la produzione old-fashioned, qui si aspetta solo che Jennifer Beals la pianti di fare la lesbica in terza serata e s’infili di nuovo body e calzamaglia, poi siamo davvero tutti.
Il galateo rock del Boss, intanto, si sfoglia avidamente, pagina dopo pagina, come un libro che rileggi volentieri anche per l’undicesima volta: Your worst enemy e Magic si aggiungono alla sua ormai storica collezione di “serenate”, metropolitana la prima (baritono alla Roy Orbison, viola e l’immancabile assolo di sax di Clemons), cedevole al rimpianto per i bei tempi andati, quando l’America non aveva la fissa di essere sotto assedio e nessuno era disposto a barattare la sua libertà con una falsa sicurezza che ingrossa, a spese dei contribuenti, il conto in banca di contractor come Lockheed, Blackwater e Booz Allen, bucolica la seconda (per organo, fiddler e mandolino) sospesa fra un dotto elogio del paesaggio americano alla Jeffers e i saggi consigli del babbo in tuta da officina.
E ancora: il folk di periferia di Gipsy Biker (con quell’attacco alla The River, “I come from down in the valley / Well, mister, when you’re young / they bring you up to do / just like your daddy done”, mamma mia che figata, ragazzi! Eh si, bei tempi) che si trasforma in un inno da big band, l’erotismo da gita estiva a Coney Island di Girls in summer clothes, l’irruenza dei “Glory Days” adolescenziali mitigata dallo scetticismo della maturità in I’ll work for your love (mitico il piano tintinnante da “Christmas Carol” di Danny Federici), il serrato power pop orchestrale di Last to die (ennesima coppia in fuga da uno scenario sociale sempre più greve e desolante, forse gli stessi personaggi di Born to Run, invecchiati ma non ancora domi), il tema patriottico dell’homecoming in Long walk home. In coda c’è posto per due ballate da manuale: The devil’s arcade, epica, triste e solenne, con la sua bella storia d’amore proletaria descritta dalla moglie di un reduce della guerra in Iraq e Terry’s song, discreta variazione sul tema di Desolation Row (per armonica, piano e chitarra acustica) dedicata ad un amico scomparso che, forse, epitomizza la fine di un’epoca intera, epitaffio per l’ultimo brandello di una giovinezza sfrangiata e trascinata via dall’incoercibile uragano della storia, o forse no.
Ruvido e caloroso come la stretta di mano d’un operaio, onesto e rassicurante come la voce di chi lo intona, Magic è il disco ideale per chi non vuole arrendersi al tempo che passa e per chi ancora sa farsi affascinare dall’immutato bildung’s roman di questo “hombre vertical”. Si astengano gli altri. O perlomeno poi non dite che non vi avevo avvisato.
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