R Recensione

7/10

Bruce Springsteen

Magic

Qualche volta le canzoni parlano da sole, scavano nei solchi della storia, tratteggiano il volto umano che fa capolino dalle sfaccettature del prisma in cui s’inquadrano i dibattiti e le problematiche dell’analisi critica. È la “differance”, come dice Derrida, il linguaggio non potrà mai esprimere compiutamente l’essere, al più si limiterà a sorvegliarne le tracce. Non è questione di “ho visto il futuro del rock’n’roll” o di un “Dylan con un vocabolario limitato”, quindi. Qui non c’entrano i gusti, le onorificenze, i titoli di studio. Bruce Springsteen è stato il musicista più influente della sua generazione, punto.

Pur non condividendo la cultura enciclopedica di un Tom Waits, l’ispirazione corsara e borderline di Neil Young, la prosa arcigna e letteraria di un Lou Reed, egli ha compreso meglio di tutti lo spirito del proprio tempo, ha scrutato a giro d’orizzonte l’umore della sua terra e della sua gente. Ed è invecchiato con loro. Grazie a lui il rock è sceso bruscamente dal piedistallo gentilizio su cui si era issato all’inizio degli anni ’70, il canzoniere popolare dei neri ha fraternamente abbracciato quello dei bianchi, nelle assemblee del sindacato o nelle missioni della chiesa metodista più che nelle “convention” della controcultura, la musica da ballo ha conosciuto la sua “Dichiarazione universale…”, il vangelo profano che ne punteggia le danze.

Dopo The Rising (in cui confermava la sua vocazione di apostolo del sogno americano, lirico patrono della New York ferita dagli attentati dell’11 settembre), l’erratico Devils and Dust e l’album di cover We shall overcome – The Pete Seeger’s sessions (quasi un simbolico passaggio della fiaccola di cantastorie civico e democratico), il vecchio ragazzo di Freehold sembra intenzionato a chiudere il periodo acustico inaugurato ai tempi di The ghost of Tom Joad (album tutto sommato modesto, fatta eccezione per il maestoso, insuperato poema omonimo) ricongiungendosi ai longevi compagni della E-Street Band.

Confesso di essermi avvicinato al nuovo Magic (Columbia, 2007) accompagnato da un certo timore reverenziale (del tipo, “…ma proprio io devo recensirlo? Cazzo no, lasciamolo a qualcun altro ‘sto compito ingrato…”, poi visto che nessuno si faceva avanti…) e generazionale (perché, si sa, il tempio eretto dalla memoria rischia di sembrare un cumulo di rovine allo sguardo spassionato del presente, perché al “Boss” come si fa a non volergli bene? E infine perché, come confessò quel pezzo di merda di Kappler al nostro Enzo Biagi (a proposito, riposa in pace vecchio mio…), “Mai tornare dove si è stati troppo felici”), timore in buona parte fugato da un ascolto sereno e ripetuto.

Radio Nowhere romba e graffia in apertura, come un animale selvatico recluso in gabbia per troppo tempo che si ritrova improvvisamente libero. La E-Street pompa come un mantice sulla vampa del ritmo trascinando i volumi a livelli mai toccati dai tempi di Born in the U.S.A., tanto che ad un certo punto sento quasi l’impulso di arrotolarmi una bandana intorno alla fronte, indossare una maglietta strappata poco sopra l’ombelico e fuggire in moto verso il tramonto con una bionda dai capelli cotonati alla Debbie Harry. Come sempre ha ragione lui, Bruce: “I just want to hear some rhythm / i just want to hear your rhythm”. E stop. Il sospetto di essermi intrufolato in una sfasatura spazio-temporale alla Einstein-Rosen (o alla “Ritorno al futuro” si parva licet) è confermato dall’hard-soul di You’ll be comin’ down e da quello più morbido e ballabile di Livin’ in the future (puro Tamla sound), entrambi fasciati da una patina “synthetica” e da calde vibrazioni overground ottantesche. Complice anche la produzione old-fashioned, qui si aspetta solo che Jennifer Beals la pianti di fare la lesbica in terza serata e s’infili di nuovo body e calzamaglia, poi siamo davvero tutti.

Il galateo rock del Boss, intanto, si sfoglia avidamente, pagina dopo pagina, come un libro che rileggi volentieri anche per l’undicesima volta: Your worst enemy e Magic si aggiungono alla sua ormai storica collezione di “serenate”, metropolitana la prima (baritono alla Roy Orbison, viola e l’immancabile assolo di sax di Clemons), cedevole al rimpianto per i bei tempi andati, quando l’America non aveva la fissa di essere sotto assedio e nessuno era disposto a barattare la sua libertà con una falsa sicurezza che ingrossa, a spese dei contribuenti, il conto in banca di contractor come Lockheed, Blackwater e Booz Allen, bucolica la seconda (per organo, fiddler e mandolino) sospesa fra un dotto elogio del paesaggio americano alla Jeffers e i saggi consigli del babbo in tuta da officina.

E ancora: il folk di periferia di Gipsy Biker (con quell’attacco alla The River, “I come from down in the valley / Well, mister, when you’re young / they bring you up to do / just like your daddy done”, mamma mia che figata, ragazzi! Eh si, bei tempi) che si trasforma in un inno da big band, l’erotismo da gita estiva a Coney Island di Girls in summer clothes, l’irruenza dei “Glory Days” adolescenziali mitigata dallo scetticismo della maturità in I’ll work for your love (mitico il piano tintinnante da “Christmas Carol” di Danny Federici), il serrato power pop orchestrale di Last to die (ennesima coppia in fuga da uno scenario sociale sempre più greve e desolante, forse gli stessi personaggi di Born to Run, invecchiati ma non ancora domi), il tema patriottico dell’homecoming in Long walk home. In coda c’è posto per due ballate da manuale: The devil’s arcade, epica, triste e solenne, con la sua bella storia d’amore proletaria descritta dalla moglie di un reduce della guerra in Iraq e Terry’s song, discreta variazione sul tema di Desolation Row (per armonica, piano e chitarra acustica) dedicata ad un amico scomparso che, forse, epitomizza la fine di un’epoca intera, epitaffio per l’ultimo brandello di una giovinezza sfrangiata e trascinata via dall’incoercibile uragano della storia, o forse no.

Ruvido e caloroso come la stretta di mano d’un operaio, onesto e rassicurante come la voce di chi lo intona, Magic è il disco ideale per chi non vuole arrendersi al tempo che passa e per chi ancora sa farsi affascinare dall’immutato bildung’s roman di questo “hombre vertical”. Si astengano gli altri. O perlomeno poi non dite che non vi avevo avvisato.

V Voti

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REBBY 5/10
gloria 10/10

C Commenti

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Vikk alle 12:51 del 9 novembre 2007 ha scritto:

il solito Springsteen

Springsteen "ha compreso meglio di tutti lo spirito del proprio tempo, ha scrutato a giro d’orizzonte l’umore della sua terra e della sua gente"?!?! forse hai ragione se parli, con tutto il rispetto, di gente "facile".

Lou Reed, Neil Young o Dylan sono sempre stati su un altra galassia anche se i primi due ormai perdono colpi ed il terzo oggi e' solo un abile cantautore.

Springsteen e' il perfetto rocker per la massa: non trasgressivo come gli Stones, di piu' facile lettura rispetto a Dylan, lontano dalle "frequentazioni pericolose" di Lou Reed e non interessato alle sperimentazioni di Neil Young.

Io ne ho sempre fatto a meno e continuero' a farlo.

simone coacci, autore, alle 14:11 del 9 novembre 2007 ha scritto:

Con tutto il rispetto, caro Vikk, ti sei limitato a ripetere con tono dispregiativo, cio che io avevo annotato in tono neutro e (credo) obiettivo. Quindi siamo essenzialmente d'accordo. Lo spirito di un popolo, il pensiero della gente comune, la filosofia spicciola e semplice del gusto medio, raramente sono state espresse dai più grandi intellettuali o dalle avanguardie. Per questo, ad esempio, in letteratura esistono i Dickens e gli Stevenson, accanto agli T.S. Eliot e ai Joyce. Sicuramente il Boss non vale Reed, Dylan, Cohen e gli altri ma volando più basso ha potuto raccontare il mondo da un'ottica diversa, attraverso istantanee più chiare ed accessibili. Poi, scusa, se "ne hai sempre fatto a meno", come fai a dire di conoscerlo? Conosci il tuo nemico, prima di tutto, diceva un certo Vladimir Ilic Ulianov. Ovviamente è solo un consiglio, non prendertela a male. Con simpatia, il tuo amico di penna, Simone.

Vikk alle 15:53 del 9 novembre 2007 ha scritto:

Simone, ho letto la tua recensione ed ho voluto esattamente sottolineare quanto ti avevi detto in toni piu' soft. Le citazioni letterarie calzano a pennello infatti Dickens penso sia uno degli autori piu' noiosi di sempre dotato solo di facilita' di scrittura e lettura, ma assai povero di contenuti; come Springsteen ha la caratteristica di fotografare la realta' quotidiana, questo pero' non significa "coprendere", ma piuttosto "cogliere".

In ogni caso Nebraska rimane un grande album, ma del Boss si puo' farne tranquillamente a meno nel senso, ma questo non significa non conoscerlo forse tutt'altro.

Per i miei gusti Springsteen (come ad esempio i Dire Straits)non e' ne' carne ne' pesce, troppo poco rock, non abbastanza pop, ha delle inflessioni folk/roots ma limitate insomma una specie di ipermercato dell'FM rock che in certi momenti vuole farsi vedere impegnato.

Saluti

ozzy(d) alle 16:20 del 9 novembre 2007 ha scritto:

ci vediamo al prossimo autogrill....

Ho sentito solo "Radio Nowhere", rockaccio posticcio di sapore fine da camionisti, un inno "american highways" imbottito di stereotipi con una serie di accordi che ormai persino Ligabue usa più...non mi sognerei minimamente di comperarlo, anche se il coacci è come sempre un recensore con le contropalle.

simone coacci, autore, alle 16:31 del 9 novembre 2007 ha scritto:

Si Nebraska è anche il mio preferito, insieme a The River. Anche se non sono certo un suo fan (lo era il ragazzino incosciente e affamato di musica di un decennio fa) lo seguo ancora con smodata simpatia (anche se i dischi ultimamente sono quello che sono). Grazie per la chiacchierata e l'attenta lettura. è sempre un piacere.

simone coacci, autore, alle 16:33 del 9 novembre 2007 ha scritto:

Ps: ahahah...Grazie Gulliver, vengo pure io (in autogrill) e ci prendiamo una sbornia che mandiamo in orbita il palloncino. Un saluto anche a te.

DonJunio alle 19:10 del 9 novembre 2007 ha scritto:

una vita da boss....

Brus anche per me ha abbondantemente superato la soglia di tolleranza, e quel poco che ho sentito di quest' album non ha davvero segnalato guizzi di sorta. Recensione impeccabile.

thin man (ha votato 7 questo disco) alle 23:45 del 9 novembre 2007 ha scritto:

Sono d'accordo su diverse cose, molto meno su altre. Per esempio The Ghost Of Tom Joad è un gran disco, per niente immediato e frettolosamente giudicato come noioso. La e-street band ormai deve essere messa da una parte comunque, così come il terribile O'Brien. Le uniche canzoni veramente degne sono le ultime due, nel resto del disco Springsteen per la prima volta nella sua carriera si autocita davvero pesantemente

fabfabfab (ha votato 4 questo disco) alle 16:11 del 25 giugno 2008 ha scritto:

Caro Boss, niente di personale, per carità, ma mi hai definitivamente trapanato le palle.

nikbonn (ha votato 5 questo disco) alle 16:59 del 30 gennaio 2009 ha scritto:

Trapanante

Al primo ascolto tutto sommato pare carino, ascoltabile e anche magari sotto certi versi interessante. Purtroppo già al secondo tentativo diventa sempre di più irritante, inascoltabile e molte volte viene voglia di passare al pezzo successivo per evitarsi una buona dose di musica banale e senza particolare genialità. Mi spiace pre Springsteen, che considero uno dei cantanti più importanti della storia musicale rock americana, ma quest'album non ha nulla da spartire ad esempio "The River".

Album mediocre,che a mio parere non raggiungre la sufficienza.

dalvans (ha votato 5 questo disco) alle 21:12 del 24 settembre 2011 ha scritto:

Mediocre

Mediocre

The musical box alle 14:27 del 15 febbraio 2016 ha scritto:

Musicalmente ha dato molto di più lui di cohen per esempio...e chi sa parlare con poesia alla massa non è un ingenuo ma di certo un illuminato. Di certo questo è un album di cui fare a meno con ottime canzoni ma nel complesso non aggiunge altro ormai ad un artista che qui viene trattato alla stregua di un Ligabue da pseudo critici che non riconosco l oggettività di un ragazzone che ha scritto The river darkness Nebraska e born to run...ma non è un Dylan un cohen o un neil young perché semplicemente è diverso il contesto e la poetica ...ma non di certo la grandezza