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R Recensione

8/10

Jimi Hendrix

Band Of Gypsys

Quinto ed ultimo album pubblicato con il genio di Seattle ancora vivo e vegeto, “Band Of Gypsys” è un assemblaggio di pezzi tutti inediti ma, diciamo così, intenzionalmente non di prima scelta e per di più eseguiti direttamente su di un palco, senza darsi pensiero di entrare in uno studio per registrarli. La ragione è che questo disco uscì per ottemperare ad obblighi contrattuali: Hendrix, prima di conoscere e legarsi al suo “scopritore” inglese Chas Chandler, sbarcare con lui a Londra e da lì far partire la sua folgorante carriera, si era tempo prima impegnato con un produttore americano, che dopo aver fatto ben poco per lui quando era ancora sconosciuto, non ci aveva messo molto a farsi vivo ed impugnare quel contratto, appena la fama di Jimi aveva iniziato, per merito di altri, a propagarsi per il mondo.

Fu trovata la maniera per risarcire e togliersi di torno questo produttore, convenendo per un disco di canzoni inedite, i cui proventi artistici fossero tutti a suo favore. Il modo più spiccio e diretto per liquidare la pratica fu la registrazione di qualche buona performance dal vivo, opportunamente farcita di un certo numero di composizioni inedite, senza però “bruciare” le idee migliori del momento, intendendo riservarle per il disco successivo. Non per altro nell’album compaiono due canzoni composte dal batterista, ed alcune suonano assai più come jam session (un semplice riff e poi vai con l’improvvisazione) che come effettive e strutturate composizioni.

Ciò non toglie che, essendo in azione un eccezionale musicista, il disco abbia assoluto valore, ovvero pari dignità con tutte le altre uscite sul mercato a nome Hendrix che l’avevano preceduto. C’è poi un altro aspetto da considerare, importante per la qualità musicale dell’opera: gli spettacoli registrati per la bisogna furono quattro e si tennero tutti al Fillmore East di New York, in due giornate consecutive a cavallo del Capodanno 1970 (uno spettacolo nel pomeriggio ed uno di sera, come usava una volta); le due giornate di concerti furono molto diverse, perché l’impresario del locale Bill Graham, personaggio pieno di carisma ed influenza ai tempi, si lamentò apertamente col chitarrista dopo la prima sera, asserendo che tutti quei suoi trucchetti, quella teatralità, quel suonare coi denti, dietro la schiena eccetera, avevano fatto sì grande spettacolo e mandato il pubblico in visibilio, ma reso tecnicamente imprecisa ed approssimativa la performance...

Il risultato fu che il giorno dopo il meticcio fuoriclasse della sei corde se ne stette buono buono nella sua postazione sul palco, chinato sulla Stratocaster e concentrato sul suono e sulle note da prendere, nonché attento all’intonazione della voce eccetera, senza concedere molto alla platea ma creando e plasmando da par suo tutta la mirabile creatività, potenza e sensualità che il suo talento era in grado di sprigionare. Inevitabilmente, le canzoni contenute in questo album provengono dai concerti del primo di gennaio, quelli a valle della “ramanzina” di Graham.

Non vi è cosa più ovvia e banale, in campo musicale, che parlare bene di Jimi Hendrix: la sua rivoluzione nell’approccio alla chitarra elettrica, la ricerca sonora, il suo darsi alla musica senza ritegno e senza preconcetti, la candida disponibilità ed apertura verso tutto e tutti, l’animalesco, primitivo fascino che sgorgava dalla sua persona appena indossava il suo strumento e si dava al pubblico, sono fatti e sensazioni ancora e sempre alla portata di chicchessia, basta visionare un qualsiasi filmato di un suo concerto: un marziano, una bestia d’altri mondi. Perfino la sciagurata e precoce morte, “congelando” il suo mito senza qualsivoglia invecchiamento, imbolsimento, rilassamento, contribuisce alla perfezione di questa icona assoluta del rock: era alto, bello, gentile, sensuale, generoso, imbottito di talento… ce l’aveva pure grosso per sopramercato, narrano le biografie, e sempre pronto! E che diavolo…

Con tutto questo, ritengo che il lascito discografico di Hendrix non renda adeguata giustizia alla sua decisiva figura di innovatore e sviluppatore musicale: non pochi i riempitivi e gli episodi sfocati e sottotono, a inframezzare e diluire le “perle” folgoranti, sparse qui e là nel repertorio, ad espandere per sempre le frontiere della musica. Questo album non fa eccezione, soffrendo ad esempio della voglia di protagonismo del batterista Buddy Miles, colto in vari momenti ad indulgere in vocalizzi e gigionerie varie con il pubblico, dall’effetto fuorviante rispetto all’approccio intenso e progressivo tipico della musica di Jimi.

Il contenuto dell’album permette di apprezzare quanto la Band Of Gypsys, cioè la nuova sezione ritmica, americana e di colore, voluta da Hendrix, sia diversa dalla vecchia Experience, quest’ultima bianca ed inglese: a dialogare coi funambolismi della sua chitarra prima stavano un batterista jazz, creativo ed irruente, ed un riluttante chitarrista prestato al basso; ora vi sono due neri che suonano “nero”, belli essenziali ed “appoggiati” nel loro approccio soul/rythm&blues. La chitarra elettrica del nostro, perciò, giostra qui in un ambiente molto più asciutto, pulito, preciso, groovish, ma in qualche modo meno stimolante, sparendo del tutto i forsennati aneliti progressivi, le trafficate elucubrazioni ritmico/melodiche colle quali i due della Experience inseguivano, e talvolta precedevano ed ispiravano, il chitarrista. Manca in particolare la speciale alchimia fra Jimi e il lavoro ai tamburi di Mitch Mitchell (che infatti verrà recuperato subito dopo, ai danni di Myles). Questione di gusti preferire l’uno o l’altro gruppo, vale però in assoluto il fatto che la musica di Hendrix suoni qui un tantino più “ordinaria”, meno sperimentale ed innovativa.

Capolavoro dell’album è la lunga “Machine Gun”, invocazione pacifista ed al contempo mirabolante tour de force espressivo dell’ex-paracadutista James Marshall Hendrix, ossessionato dall’inutilità e dalla crudeltà della guerra in Vietnam. Il riff iniziale comprende una porzione sparata all’unisono da Jimi e Buddy, fatta di trentaduesimi stoppati e rullati che simulano il sinistro e secco crepitio di un fucile mitragliatore, poi l’ispirato freak di Seattle prende a vagolare nel suo inimitabile stile, avviluppando la chitarra alla sua voce in un continuo alternarsi di unisoni e di botta e risposta, con l’affascinante fluidità e naturalezza che, al tempo, lasciò senza fiato tutti gli addetti ai lavori, ma pure oggi appare di un altro mondo, inarrivabile.

Quando poi smette di duettare con se sesso e si concentra sul solo strumento, siamo all’apoteosi: lunghi minuti di visionaria improvvisazione blues/psichedelica senza il minimo cedimento creativo, chiamando a raccolta tutte le possibili combinazioni dei pedali a sua disposizione (distorsore, wah wah, pluriottave, flanger) e poi la leva del vibrato, i diversi pickups e le diverse posizioni fisiche sul palco, per poter interagire con l’amplificatore in modi sempre diversi. Uno spettacolo! Col passare dei minuti il fraseggio si fa via via più rumoristico, con simulazioni di bombe, sirene, mitragliate, a espressivo corollario di quest’evocativo e virtuoso lamento/monito contro l’uso delle armi in qualsiasi conflitto. Dopo tanti minuti di vero massacro, si avverte come la Stratocaster non ce la faccia più a stare intonata, allora Jimi torna al microfono e parla al pubblico del Fillmore, mentre riaccorda rapidamente e passa al finale: sono dodici minuti che volano, tra le cose migliori donateci da questo sommo musicista, nello stile dell’ancor più celebre, ma a mio gusto affatto superiore “Woodo Child (Slight Return)”, che chiudeva alla grande il disco precedente.

Grandissimo pezzo pure “Message To Love”, bocconcino prelibato per gustare il Jimi Hendrix meraviglioso chitarrista ritmico, col fantastico suono pulito della Stratocaster sotto le sue dita, il magico e naturale groove funky, da resuscitare i morti, la proverbiale fluidità nel condire l’accompagnamento di piccoli accordi, assolini, contrappunti… e poi una bella pestata al comando del distorsore e vai, una tirata di corda assassina per un urlo belluino, primordiale e liberatorio, a tutto volume. E non è tutto qui: il brano gode pure di un (celeberrimo) riff di base delizioso, ed infine Jimi vi canta pure benissimo, col suo stile pacato e semi parlato, così istintivo, sensuale, peculiare.

Changes” è una canzonetta che tira molto verso il funk, composta e cantata da Myles, a cui Hendrix regala un sontuoso (e celeberrimo pure lui) riff, condotto col pedale wah wah, nonché un ottimo assolo centrale. “Power Of Love” è molto di più: Jimi cava dal cilindro un altro gran bel giro di chitarra, dalla ricercata scansione ritmica che ogni tanto “spareggia” il tempo, mangiandosi una battuta e permettendo al trio di divertirsi, capaci come sono tutti e tre di renderlo con estrema fluidità e sicurezza. Il grand’uomo canta una strofa rockblues “a la Cream” e poi si fa raggiungere da bassista e batterista per un ritornello gospel. Infine, assoli da paura ricolmi di pedale wah wah ed applausi convinti dei duemila fortunati Newyorkesi presenti.

I brani più deboli dell’opera sono quelli che la aprono e chiudono. Si sviluppano entrambi su di un unico accordo e rivelano la loro natura di jam sessions o poco più, specie la finale “We Gotta Live Together”, fra l’altro mutilata della sua prima parte all’atto della masterizzazione del disco, sicuramente per motivi di spazio sul vinile. L’iniziale “Who Knows”, che vede duettare al microfono Jimi e Buddy nella prima strofa, appare più appoggiata ed organizzata, ma si perde poi nei lunghi manierismi del batterista che, fra gorgheggi in falsetto, stop del tempo per far battere le mani al pubblico ed altre indulgenze simili, tiene per troppo tempo il pallino in mano, senza molta gloria.

Se la musica è una fede, Jimi Hendrix è uno dei suoi Profeti Maggiori. Come per diversi altri grandissimi, lo smisurato talento ed apertura mentale portavano purtroppo con sé, quasi indispensabili per aiutarlo ad esprimere compiutamente esprimere la sua arte, grandi dosi di fragilità, spericolatezza, ingenuità verso tutto ciò che in questo mondo è infido, dannoso, per qualcuno (anche per lui, purtroppo) letale.

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Voto degli utenti: 7,9/10 in media su 16 voti.
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loson 6/10
David 10/10
REBBY 7,5/10

C Commenti

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fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 9:57 del 12 giugno 2009 ha scritto:

Grande Pier. Buddy Miles qui è un gigante, Jimi è - al solito - Jimi. Complimenti per la scelta dell'opera.

ozzy(d) (ha votato 8 questo disco) alle 11:24 del 12 giugno 2009 ha scritto:

Preferisco di gran lunga il postumo " first rays of the new rising sun", che come intuisce il titolo stava aprendo orizzonti nuovi alla musica di Jimi,...questo è inferiore ai due capolavori precedenti.

REBBY (ha votato 7,5 questo disco) alle 17:39 del 28 luglio 2009 ha scritto:

Dal mio punto di vista recensione perfetta.

PetoMan 2.0 evolution (ha votato 8 questo disco) alle 21:31 del 3 dicembre 2009 ha scritto:

buon live

Dico subito che la copertina è la mia preferita fra i dischi di Hendrix, lui, la strato e basta. Il disco è buono, ma giustamente, come ha fatto notare il recensore, avrebbe potuto essere migliore. Alcuni pezzi sono tagliati ed i taglia e cuci sono anche abbastanza evidenti purtroppo. Poi in quei 4 concerti suonò tanti altri ottimi pezzi che qui non son presenti. Resta però il solito grandissimo Hendrix e qui la sua chitarra ha un suono sublime. Per me il suo miglior live resta il Live at Berkeley second show. D'avvero splendida la recensione, un'analisi del disco completa e precisissima. Bravo d'avvero. 10 al recensore

dalvans (ha votato 8 questo disco) alle 15:14 del 23 settembre 2011 ha scritto:

Buono

Buon disco