Morrissey
Years of Refusal
E sono nove. Ora che la produzione solista di Morrissey ha più che raddoppiato quella degli Smiths, la missione - dopo qualche appannamento - diventa inevitabilmente quella di dimostrare di essere ancora in forma dopo il mezzo passo falso di "Ringleader of the Tormentors". Per farlo, si torna al passato: tramontata (definitvamente?) l'infatuazione per Roma, ai comandi torna quel Jerry Finn già responsabile del buon "You Are the Quarry", purtroppo tragicamente scomparso poco prima dell'uscita di questo disco.
L'incipit è una scossa di adrenalina: "Something Is Squeezing My Skull" evidenzia subito le caratteristiche di questo disco, ovvero linee di basso aggressive, chitarre distorte e una batteria che - forse per la prima volta nella carriera del Nostro - esce dall'anonimato e non si vergogna di proporre rullate e quant'altro, arrivando a volte addirittura a "distrarre" dalla voce di Morrissey, che sembra ritrovata rispetto alle difficili performance live degli ultimi due anni. Scelta artistica, questo è certo: va detto però non sempre il glam-rock di Boorer e soci (ormai stabilmente assoldati come backing band) si addice alle caratteristiche dei brani qui presenti: tracce tutto sommato più che valide come "Sorry Doesn't Help" e "I'm OK By Myself" sono anzi quasi banalizzate da tali arrangiamenti "di sostanza".
Volendo ricercare un precedente musicale, "Years of Refusal" è quasi il fratello gemello del sottovalutatissimo "Southpaw Grammar" che quattordici anni or sono rischiò di affossare definitivamente la carriera di Morrissey, reduce da scandali più o meno piccoli e in perenne polemica con l'intero ambiente musicale britannico e non solo. Anche se ultimamente la Union Jack che lo avvolgeva nei concerti è stata sostituita da una più politicamente corretta t-shirt pro-Obama, di certo non si è smarrita la voglia di provocare: all'interno del vinile del primo singolo "I'm Throwing My Arms Around Paris", il cantante e la band appaiono del tutto nudi, con un semplice sette pollici a coprire le zone intime. A livello di testi, la già citata traccia iniziale gioca sulle (eterne) contraddizioni del personaggio, che ci informa di come da un lato "non c'è speranza nella vita moderna", dall'altra di essere "eccitato dagli scossoni dei taxi".
Già, i testi, da sempre il punto forte della produzione: anche qui, non mancano piccoli capolavori come "It's Not Your Birthday Anymore", esplicita come mai in passato: "All of the gifts that they gave can't compare in any way / to the love I am now giving to you / right here, right now on the floor". Storie d'amore e di amicizia dunque, soprattutto smarriti e rimpianti, come da tradizione. L'avvertimento di "One Day Goodbye Will Be Farewell" (morrisseyana fin dal titolo) mostra quell'atteggiamento didascalico in cui il mancuniano spesso induge, mentre "You Were Good In Good Time" riprende il tema del musicista sul viale del tramonto già affrontato in "Get Off the Stage" e che non può non apparire autobiografica, viste anche le intenzioni di ritiro palesate sui giornali negli ultimi tempi.
L'inserimento di "All You Need Is Me" e "That's How People Grow Up", già presenti nel Greatest Hits uscito solo pochi mesi fa, lascia quantomeno perplessi, anche perchè sono probabilmente i due brani più deboli dell'intera raccolta; la ripetitiva "Black Cloud" scimmiotta invece le atmosfere glam di "Your Arsenal" senza averne le qualità. Stupisce invece positivamente la curiosa "When I Last Spoke to Carol" dall'incedere spagnoleggiante, e la bella "Mama Lay Softly on the Riverbed", entrambe provenienti non a caso dalla penna di Alan Whyte.
Un capitolo a parte lo merita la commovente "I'm Throwing My Arms Around Paris", che con i suoi delicati arpeggi è senza alcun dubbio il capolavoro del disco, la canzone da tramandare ai posteri di questa raccolta, come lo erano state al tempo "Alma Matters", "First of the Gang to Die" e "You Have Killed Me" per i rispettivi dischi. Scritta da Boz Boorer (i cui trascorsi rockabilly riemergono qua e là in tutta l'opera) è una perfetta canzone pop che non avrebbe sfigurato su "Viva Hate" o "Vauxhall & I"; particolarmente memorabile il ritornello, in cui il Nostro afferma di volere abbracciare tutta Parigi, in quanto solo pietre e acciaio accettano il suo amore.
Volendo tirare le somme, questo "Years of Refusal" non riesce a segnare una svolta nella carriera solista di Morrissey, anzi riprende di essa gli aspetti più rock, fornendo un ascolto piacevole anche se non memorabile: ci si può accontentare, a patto che sia solo un episodio interlocutorio e non invece l'addio alle scene di uno dei più importanti e influenti personaggi mai apparsi nel Regno Unito.
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