Neil Young
Fork in the Road
Chi ama e segue cavallo pazzo Neil Young è abituato alle bizzarrie che costellano la carriera del più geniale, ombroso e instabile talento della storia del rock. Non c’è dunque da stupirsi che la pubblicazione dei tanto sospirati Archivi – dopo gli antipasti live – sia stata nuovamente posticipata, per fare spazio a un nuovo album di inediti, scritto e registrato di getto sulla falsariga del “Living with war” di tre anni fa.
Allora l’autore di “Ohio” aveva rispolverato l’ardente passione politica nel momento di massima indignazione per il Texas leaguer alla Casa Bianca, addentrandosi con piglio da tribuno in una intricata selva di riff garage con un paio di momenti memorabili quali “Shock and awe” o “The restless consumer”. Stavolta è la passione ecologica ad aver ispirato zio Neil, intento a cavalcare il new deal verde obamiano.
Ecco dunque un concept album tra strali contro l’industria petrolifera e istantanee sull’ America odierna scattate da auto alimentate ad energia alternativa: ne fa fede in scaletta la trilogia dell’asfalto composta da titoli quali “Hit the road”, “Off the road” e “Fork in the road”. I più sensibili dei youngofili potrebbero a questo punto avere i brividi, e rievocare miraggi sepolti nel remoto immaginario del Canadese legati alla dimensione “on the road”. Strade che per Neil non sono state teatro del riscatto di umiliati e offesi springsteenieni o terreno per le geniali allegorie sulle orme di Mark Twain della Highway 61 dylaniana. Bensì di volta in volta peripezie visionarie (“The Last Trip to Tulsa”), cavalcate di sfavillanti Cadillac sotto il sole del profondo Sud (“Alabama”), tappe del calvario di una Nazione tra depressione post-hippie e scorie vietnamite (“Ambulance blues”) o passaggi dal bitume alla sabbia quale metafora della propria rinascita artistica e personale ( “The Thrasher”).
Niente di tutto questo, ma un album proiettato verso le sfide di sostenibilità del futuro, ossia il bivio cui fa riferimento il titolo del lavoro. Intento di sensibilizzazione lodevole e bersaglio centrato:nonostante una certa retorica senile qua e là inevitabilmente affiori, Young è ancora capace di sgommare con abilità oltre i contrasti del suo grande paese adottivo, in cui “sbagliato è giusto, verità è finzione, verità è bugia”, e di insinuare dubbi e inquietudini al grido di“ There's a bailout coming but it's not for you” (“C’è una cauzione in arrivo, ma non è per te”).
In musica ciò si traduce nell’ennesimo album in chiaroscuro di questa decade, la prima dai Sixties a non aver avuto un autentico capolavoro da parte di un Young sempre più ostaggio di una capricciosa ispirazione. “Fork in the road” accentua il feeling garage di “Living with war”: rock sanguigno e smargiasso, non però in maniera geniale come in un “Re-ac-tor” ma a tratti imballato come in “Greendale”.
Si ascoltino le manierate scorribande sudiste di “Cough the bucks” e “Johnny Magic” e la parodistica citazione di “Roadhouse blues” dei Doors su “Get behind the wheel”. Il Young elettrico, intricato e dolente che tanto amiamo, compare occasionalmente, con alcune scorie sprigionate da “Hit the road” e “Fork in the road”. Ma il solo Ben Keith, a differenza del precedente e riuscito “Chrome Dreams II”, non basta a ricreare certe affinità elettive, in contumacia Crazy Horse. Specialmente se le intuizioni di “When worlds collide” e “Just singing a song” vengono appesantite nel refrain da stucchevoli cori tardo-hippie.
A nobilitare il disco provvede per fortuna la scalata di marce su “Fuel Line”, con capatina a Motown che riporta agli anni Ottanta del sottostimato “This note’s for You” e su “Off the road”, dai riusciti tocchi gospel. Fino all’asso nella manica, l’esercizio youngiano per eccellenza, la ballata:la squisita
“Light a candle”, acquerello folk alla Bert Jansch che vivacizza con soffici iridescenze l’ennesimo dipinto del Loner. Certo, Neil Young non potrebbe sbagliare una ballata neanche se volesse.
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