R.e.m.
New Adventures in Hi-Fi
L’ispirazione è una brutta bestia. Va sempre di moda non crederci, proseguire la celebre polemica avviata da svariati artisti dell’Ottocento trincerandosi dietro formule stantie e snob quali “Non so neppure cosa sia l’ispirazione”. Poi prendi un gruppo dalla carriera pluriventennale e sfarzosa come i R.E.M. per scoprire che il loro capolavoro è l’album registrato in pochi mesi nel mezzo di un tour, negli studi affittati di volta in volta on the road, e con tre quarti dei componenti che si sono alternati in sala operatoria. E ti chiedi se abbia senso negare l’esistenza di ciò che talune opere testimoniano in ogni aspetto.
Ma di “New Adventures in Hi-fi” non colpiscono solo rapidità e travaglio della sua creazione, bensì una consapevolezza espressiva senza pari nel pur opulento catalogo dei georgiani. Consapevolezza figlia dell’irripetibile contesto dell’epoca.
Siamo alla metà degli anni 90: Cobain è un pallido cadavere, alla “rivoluzione” alternativa ha fatto seguito un’impietosa restaurazione, mentre gli stessi R.E.M. stanno sfaldandosi ( Bill Berry si chiamerà fuori un anno dopo), e il contratto multimilionario firmato con la Warner li sta definitivamente per imbalsamare tra le stelle patinate. Michael Stipe, sopravvissuto del rock, trova non si sa come la famigerata ispirazione per vergare il proprio capitolo decisivo, mettendosi a nudo, forte di una scabrezza che sembra aver abolito ogni artificio retorico e sublimando la grande esperienza della delusione umana in un affresco sia personale, sia legato all’America degli anni Novanta.
“La storia è di quelle tristi e l’ho raccontata tante volte”, mormora Stipe nello spettrale e morfinico incipit “How the West was Won and where it got us”. “So che questo spettacolo non seduce, ma non ha alcuna importanza” aggiunge nella morbida nenia younghiana “New Test Leper”, mentre nella fosca vivacità di “Bittersweet me” ammette: “Non so di cosa ho fame, non so più cosa voglio”. Il gruppo asseconda le lune del leader, oscillando tra la ruggente potenza di esecuzione di “Monster” e gli umori crepuscolari di “Automatic for the people”. La prima trova sbocco in grezze gemme dal vago sapore glam quali “Wake up bomb” ( con tanto di citazione per T-Rex e Queen) o “Departures” , mentre “Low desert” e “So fast, so numb” ammaliano con torridi aromi border. Il marchio di fabbrica del gruppo, la ballata, non tradisce in sublimi coriandoli quali “Be Mine” o “Electrolite”, sentite elegie che celebrano le illusioni senza più crederci, rendendole vive come tutte le cose che abbiamo perso.
Ma è nei due pezzi più lunghi dell’album che i R.E.M. raggiungono una dimensione speciale, che distilla il meglio della loro poetica . “E-Bow The Letter” è la “Ambulance Blues” dei georgiani: un viaggio tra le rovine della loro epoca e confessione sul prezzo del successo, accompagnati dalla voce di Patti Smith, con una narrazione disincantata, drammatica e fuori dal tempo. Il delizioso arrangiamento di Mike Mills (mellotron, moog e sitar elettrificati che intarsiano la nuda chitarra acustica) fa il resto.
I sette minuti di “Leave”, torbidi e aggressivi avvolti come sono dentro la spirale di un groove chitarristico mozzafiato, trasportano infine in un delirio onirico di stordente prepotenza melodica che non fa prigionieri. “That's what keeps me down, to leave it all behind”: una visione panoramica imponente, il lascito più fulgido di Stipe, Buck, Mills e Berry.
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