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R Recensione

8/10

Paramount Styles

Heaven's alright

Dall’attacco del primo brano “Take Care of Me” si pensa quasi di aver sbagliato album: il ritmo della batteria e il delay delle chitarre ricordano "The Bends" dei Radiohead. Ma appena la voce di Scott McCloud inizia a cantare, quasi subito d’altronde, ci si accorge che è tutta un’altra atmosfera. Non semplicemente lontano, ma agli antipodi rispetto a quella malinconica allegria di "The Bends".

Scott McCloud, ex dei Girls Against Boys, è il fondatore nel 2005 dei Paramount Styles, un progetto nato a New York come una “loose idea” con una semplice Gibson acustica e cresciuto fino alla registrazione nel 2008 del disco "Failure American Style". Al fianco di McCloud il batterista, proveniente anche lui dai Girls Against Boys, Alexis Flesig e una serie di ospiti di alto calibro, come Julia Kent degli Antony and the Johnson con la sua viola. La voce è la quella di McCloud ed è forse in essa che i Paramount Styles trovano il proprio segno distintivo: se nei Girls Against Boys veniva sommersa dal pesante tappeto sonoro delle chitarre wave, qui essa emerge in tutta la sua splendida bellezza. Ed è lei, con quel suo tono rauco, sporco, a viziare meravigliosamente tutto il nuovo album, "Heaven’s Alright". Si intuisce nella sua intonazione l’influenza di Lou Reed, ma la purezza innocente e spaesata di questo si carica di un peso esistenziale tremendo al quale McCloud sembra voler reagire con una cadenza di arroganza.

Eppure, come si riesce ad ascoltare perfettamente nella ballata con pianoforte “Steal Your Life”, la sua reazione è destinata a fallire. Resta splendido tuttavia il modo in cui tenta di levarsi in atmosfere che poco spesso l’aiutano ad allontanare quella sublime sensazione di decadenza: le chitarre e i ritmi della batteria grattano il suono cercando spesso di disegnare una perversione post grunge che ricorda molto gli Afghan Whigs, ma l’insolenza depravata della voce di Greg Dulli (percepibile in “Desire is Not Enough”) resiste in quella di McCloud soltanto nel vago accento di una sterile violenza. In “Stay Alive” la voce arriva a tradire un tremore che non è possibile ignorare: le parole sembrano richiamare, con una nostalgia condannata dalla perdita, un altro brano, “The Greatest”, trasformando un inno all’amore in un rimpianto che soltanto la preghiera di una consolazione illusoria riesce ad attenuare (“Even if all is wrong / even if you fell you can’t go on / promise me this:/ Stay alive”).

In Heaven’s Alright c’è tutta la polvere e la brutalità di Mark Lanegan che si piegano però dolcemente alla stanchezza: gli accenti di viola che compaiono nella maggior parte dei brani incendiano le notti insonni di sogni e, quando si distorcono come in “Come to Where You Are”, di incubi. I fantasmi che Mark Lanegan cerca di redimere nella voce di Isobel Campbell ("Ballad of Broken Seas", "Sunday at Devil Dirt" e "Hawk"), volano in questo ultimo brano fuori dalla stanza buia attraverso la finestra spalancata dalla musica dei Paramount Styles, verso un’alba fredda ma accogliente che ricorda quella dei Sophia e la voce di McCloud, mentre la musica si attenua fino a scomparire, sembra tentare di fermarli, sussurrando sempre più rassegnata, come resti appesa ad un’ossessione che non vorrebbe mai superare. Scott McCloud non rincorre l’eccesso di Greg Dulli e neppure si adagia sulla via della salvezza che percorre Mark Lanegan, ma sembra tentare disperatamente di emulare il primo e di sfuggire al destino del secondo, fallendo, in qualche modo, in entrambe le direzioni.

Se i Sophia scappano al loro passato (The God Machine), McCloud dà l’impressione di voler scampare al proprio futuro ed è proprio la disfatta di questo sforzo estremo a produrre qualcosa di unico, originale e splendido, qualcosa che porta tutto il sapore seducente e spontaneo di una maestosa sconfitta. Questo è Heaven’s Alright, il risultato perfetto e sincero di ciò che nacque come una “loose idea”.

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