R Recensione

8/10

Crosby, Stills & Nash

CSN

Il “disco della barca” fotografa il celebre trio anglo/texano/californiano in un ottimo momento d’ispirazione e può essere considerato la loro seconda migliore uscita discografica di carriera, dopo l’inarrivabile “disco del divano”, l’esordio col botto del 1969.

La barca apparteneva a David Crosby, appassionatissimo di vela (oltre che di droghe e musica… in quest’ordine, purtroppo!) e questa foto di copertina non mancò a suo tempo di scatenare (correva il 1977) la contestazione di certi pseudo politicizzati giovanotti, in vena di prendersela anche coi mulini a vento. È scontato che diversi di questi siano, al presente, maturi e distinti signori felicemente in possesso di qualche natante simile, e che con il medesimo scorrazzino appagati per mare, senza più trovarci alcunché di male.

I co-produttori esecutivi Ron e Howard Albert si concentrano sulla resa sonora degli impasti vocali, uno dei pezzi forti del gruppo, riuscendo a fare di “CSN” la raccolta di canzoni più efficace in assoluto per gustarsi l’epocale bellezza dello squisito melange fra la voce angelica e perfetta di Crosby, quella fangosa e nasale di Stephen Stills e quella tenorile e squillante di Graham Nash.

Il primo assaggio di questa magia vocale i tre musicisti lo avevano avuto nel 1968 a casa di Joni Mitchell. Nash racconta ancora come, nel salotto dell’allora sua compagna Joni, egli si fosse inserito d’istinto con un’armonia alta nell’appena assemblata “You Don’t Have To Cry”, che Stills e Crosby avevano preso a canticchiare, perché all’istante ognuno dei tre avvertisse come un cerchio chiudersi, un conto tornare.

Graham fu facilmente convinto a lasciare per sempre l’Inghilterra ed il suo gruppo beat-pop degli Hollies, per associarsi ai due grandi musicisti e compositori americani, reduci rispettivamente da Byrds e Buffalo Springfield e quindi, anche se al tempo inconsapevolmente, già nella storia della musica popolare del secolo scorso. Da quel giorno, un susseguirsi di liti e riappacificazioni, di allontanamenti e di riunioni, di musica sopraffina o di routine da parte loro.

È un fatto comunque che qui, su “CSN”, tutto funzioni benissimo, con gli ingredienti e le sinergie tipici del trio molto ben a fuoco: Stills a fare la parte del leone a livello compositivo e soprattutto strumentale, colla sua prolificità e varietà di stili ed influenze da una parte e colla sua perizia su chitarre, bassi e tastiere dall’altra; Nash a metterci la sua peculiare vena leggerotta ed onesta, comunque perfetta ad intercalare le più corpose intuizioni dei suoi compagni. Crosby infine, già piuttosto in difficoltà con la salute, le polveri le pasticche e gli intrugli vari, a risolvere facendosi dare una mano da session men esterni, o dallo stesso Stills, per arrangiare adeguatamente certi suoi testi.

Per una volta, un loro disco è appunto aperto da una (mezza) composizione di Crosby. Fu la stessa barca immortalata in copertina a suggerirgli il testo della “Shadow Captain” iniziale: David si svegliò in piena notte mentre era al largo della California e, felice e ispirato, buttò giù di getto tutte le parole del brano, tornandosene poi a dormire. In seguito le diede al pianista Craig  Doerge, che ci ha messo del suo e se ne è venuto fuori con una partitura sontuosa: le tre voci dei nostri, mai così potenti e ricche, veleggiano nobilissime sopra abili ed eleganti rivolti pianistici, cospargendo istantaneamente di magia l’ascolto.

Nessun calo, anzi ulteriore emozione al passaggio del secondo brano “See The Changes” di Stills, assai più intimista nell’arrangiamento essendo i vocals guidati da una semplice chitarra acustica. Ancora mirabili armonie a vele spiegate per buona parte del testo, con Stills che “chiude” da solo ogni refrain, alla maniera già adottata anni prima per “Judy Blue Eyes”: i tre minuti migliori dell’album, pregni di classe pura e cesellati da liriche stupende.

Dopo una simile coppia di apertura, il primo brano di Nash sul disco prende l’inevitabile ruolo del freno a mano tirato: dolce, onesta, sentita ma un poco evanescente come da costume, la sua “Carried Away” lo vede al pianoforte, da tempo suo strumento preferito, e ad un breve ma brillante assolo di armonica. È un brano della serie “Crosby & Nash”, David ci mette la seconda voce, Stephen gira al largo.

Per tornare alla grande con la sua latineggiante “Fair Game”. La giovinezza passata fra Panama e Costarica ha sempre donato a Stills una deliziosa e peculiare vena caraibica. Questo episodio e la “Dark Star” che si incontra poco più in là in scaletta hanno caratteristiche ed alta qualità simili: i riff di chitarra acustica e le percussioni danno luce e calore “cubano” al sound, la voce duttile del protagonista ed un paio di suoi ficcanti assoli di chitarra (sempre acustica) fanno il resto: due ottime canzoni.

Fedele come sempre al motto “poco ma buono”, Crosby interviene nel disco con solo due composizioni completamente sue, ambedue ricche delle inusuali, fascinose successioni di accordi nonché del raffinato ed attento arrangiamento vocale che gli è abituale. In “Anything At All” si fa aiutare dal morbido tocco di Doerge al piano, a duettare con le voci senza quasi nient’altro intorno, mentre su “In My Dreams“ ci pensa il compare Stills a condurre con classe il brano pizzicando a dovere le chitarre acustiche, col suo stile pulito e deciso che lo qualifica come uno dei migliori.

Cathedral”, al centro dell’album, è un episodio di inusuale ampio respiro da parte di Nash: quasi sei minuti fra i meglio apprezzati e ricordati del suo repertorio, anche perché i tre non hanno mai mancato di eseguirla nei concerti a venire. Enfatica, drammatica ed un poco retorica (anche se più che giusta, beninteso) tirata anticlericale, basata a quanto si dice da un suo “viaggio” in acido presso le rovine di Stonehenge, da molti (non da me) viene segnalata come il capolavoro del disco.

Il prolifico Nash firma altre due cose, di nuovo brevi, delicate e accessibili come da suo tipico stile: il singolo senza infamia e senza lode “Just A Song Before I Go”, aperto dal riconoscibilissimo bello stile Stillsiano sulla Gibson solista tenuta con i toni molto chiusi, e la triste ed autobiografica “Cold Rain”, una riflessione sui suoi ricordi d’infanzia nella umida e fredda Manchester, condotta in punta di pianoforte.

Ben altro piglio viene dalla corposa “Run For Tears”, un rock di Stephen nel ritornello del quale si scatenano le tre magnifiche voci, nuovamente potenti e timbricamente ricchissime: sapida e ben riuscita musica californiana, così come nell’episodio di chiusura, la forse più anonima “I Give You Give Blind”.

L’ultimo grande album californiano prima dei difficoltosi anni ottanta, pieni di guai (per Crosby, in particolare) e di musica molto meno gioiosa, attenta e socialmente presente di questa.

V Voti

Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 8 voti.
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maurizio 10/10
alby66 8/10
REBBY 6/10

C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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DonJunio (ha votato 6 questo disco) alle 21:25 del 27 febbraio 2009 ha scritto:

Manca una consonante per me....

....Album troppo indolente e soporifero, in cui la tensione di un tempo lascia spazio ad atmosfere a volte impalpabili, da party di reduci imborghesiti sfatti e imbolsiti intenti a preparare una grigliata. Giusto qualche sporadico sprazzo di classe qua e là, ma come cantava Young, riferito ai suoi ex sodali, "There was nothing that they needed, Nothing left to find"....

ozzy(d) (ha votato 7 questo disco) alle 15:10 del 28 marzo 2009 ha scritto:

"Shadow Captain”, “Fair Game”, “Dark Star”, tre assi calati in un disco complessivamente meno riuscito...ma che assi!

PierPaolo, autore, alle 17:03 del 28 marzo 2009 ha scritto:

Incorreggibile Don

Il tuo idolo assoluto non manca, dai. Massimo rispetto per il tuo mito, ma non è che il canadese abbia poi riversato tanto del suo genio in questo gruppo. Un caro saluto.

alby66 (ha votato 8 questo disco) alle 10:08 del 6 settembre 2010 ha scritto:

Credo sia stato davvero il loro ultimo disco ispirato.Il famoso disco della "barca", amavamo definirlo così tutti noi adolescenti che si stavano formando musicalmente ascoltando sino allo sfinimento CSN,Neil Young, Eagles, Jackson Browne etc..etc...

Dopo il 1977, inizia la progressiva discesa con allegato calo di ispirazione. Credo anch'io che i guai personali di Croz abbiano contribuito ad appannare il mito del trio.Oltretutto personalmente ritengo che David Crosby fosse davvero l'anima più ispirata e sperimentale tra i tre,basti pensare al suo pregevole lavoro con le accordature aperte sull'acustica.