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R Recensione

6,5/10

Marco Cappelli Acoustic Trio

Le Stagioni Del Commissario Ricciardi

Appuntatevi, se appassionati del genere, il nome più in vista del romanzo giallo italiano, degnissimo (per forma e contenuto) di ritagliarsi una nicchia paritaria a quella del blasonato Camilleri: quello del napoletano Maurizio De Giovanni. Parla un non amante di certuni topoi letterari, che adora il solo Scerbanenco per l’adozione di quello stile così nervoso ed informe, ma rifugge appena riesce dall’arruffata disposizione-noir di Carlotto (bontà sociale mi impedisce di citare anche solo in minima parte la pletora di naviganti a vista sorti sull’esempio dell’autore di Arrivederci amore, ciao). Il suo Montalbano, l’Alligatore di turno è il commissario Ricciardi, esponente di punta della nobiltà salernitana trapiantata nella terra partenopea, in un timeframe monopolizzato dal solo infuriare fascista: snob e diretto quanto basta per fornire un solido contrafforte agli squilibri oscuri di un’ipersensibilità che riesce – non si sa come – a captare pensieri e parole postreme delle vittime degli omicidi. Uno Shining tutto italiota, convintamente – e correttamente – trasposto in Fatto. Da una decina d’anni a questa parte, il commissario Ricciardi è protagonista e mattatore assoluto di un ciclo di libri a lui ispirati.

Appuntatevi, se appassionati del genere, la curiosa operazione organizzata – con gran dispiegamento di forze e dovizia di particolari – dal trio di Marco Cappelli, docente di chitarra classica presso il “Vincenzo Bellini” di Palermo e virtuoso tuttofare del proprio strumento (la formazione è completata da Ken Filiano al double bass e da Satoshi Takeishi alle percussioni). I tre, che bazzicano con costanza la Downtown newyorkese e il roster Tzadik, si lanciano nell’impresa – più per il loro curioso assetto, che per gli intenti finali – di fornire un’immaginaria colonna sonora per la narrazione obliqua e bizzarra dei protagonisti di De Giovanni. Sulla carta surreale quanto si vuole, “Le Stagioni Del Commissario Ricciardi” (pur con gli evidenti limiti che da sempre comportano i dischi quasi esclusivamente costruiti attorno alla chitarra, sia essa classica, acustica, elettrica o cordofono grossomodo assimilabile) tratteggia interessanti scenari strumentali che si servono delle armonie folk mediterranee come grimaldello per veicolare la reale sintassi, jazz quando non soverchiamente decostruttivista.

I pezzi, limati sino allo spasmo da professionisti del mestiere, sono odissee progressive in cui gli umori e i cambi di scena sono finemente tagliati sul filo di ogni singola sfumatura. Cappelli ne esce fuori a testa alta, se non altissima (ascoltate cosa combina in coda a “Sergeant Maidne” quando, a giochi praticamente conclusi, estrae dal cilindro una sezione romantica di fattura ed intarsio pregevolissimi), ma certo i suoi compagni dimostrano di non valere, artisticamente parlando, meno: Filiano si occupa della tessitura, melodica ed improvvisativa, di “Doctor Modd” – con il leader spesso relegato a contrappunto –, raddoppiando poi la dose nello stornello, slogato da irregolarità free, di “Deputy Police Chief Garzo”, dove anche Takeishi si reinventa nuovo, esuberante Ches Smith. Importante rilevare, a questo proposito, come Cappelli spesso rinunci alla scontata accumulazione tematica, servendosi di un inusuale approccio percussivo che scandisce, preciso come un metronomo ed a variazione ritmica pressoché nulla, l’incalzare ombreggiato di “Detective Ricciardi” (un poliziesco acustico su metro da suite), la lunga geremiade di “March Of The Dead”, funestata da spifferi e sfregamenti (come se gli Ardecore tenessero un secret show nella casa degli Usher) ed il bell’esercizio manieristico di “Livia”, che viene gradualmente temperato dalla sempre maggiore inoculazione di germi etno-folk. Il brano giocosamente jazz del lotto, corredato di svolazzi strumentali sempre proni al risultato finale, è l’istantanea “Bambinella”, dedicata al femminiello della cui testimonianza Ricciardi spesso si serve, per sbrogliare la matassa dei casi a lui affidati.

Curioso e a tratti elitario, ma non privo di un certo fascino popolare.

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