Soundtrack

Little Miss Sunshine

Di tanto in tanto escono film in grado di rendere il concetto di indie meglio di tanti dischi e compilation: malinconici, controcorrente e naif, dotati di un umorismo agrodolce e toccante, incapaci di venire a patti col cinismo del mondo che li circonda, arrabbiati di una rabbia implosa e auto-lesionista. Qualche mese fa è stata la volta di Me and You and Everyone We Know di Miranda July, ora tocca a Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris. Film peraltro diversissimi, ma che vibrano di emozioni simili e che respirano spesso lo stesso senso di smarrimento, persi in una babele di emozioni inespresse e sogni inconfessati, animati da bambini che agiscono e pensano come adulti e adulti che non vogliono abbandonare il loro retaggio infantile.

Fanno il paio anche, per molti versi, le colonne sonore: la prima, del 2005, curata e composta da Michael Andrews, la seconda affidata a Mychael Danna e all'orchestra di Denver DeVotchka.

Un disco, quest’ultimo, che funziona meravigliosamente anche senza il sostegno delle immagini: l’orchestrina di quattro elementi crea bozzetti toccanti e lirici (We're Gonna Make It e The Winner Is), cita Roy Orbison e Gene Pitney (Till The End Of Time e How It Ends), si lancia in una scorribanda a metà strada tra l’exotica e Morricone con First Push, ondeggia tra il tango e la marcia funebre in Let’s Go e si lascia andare ad una delicata ballata mariachi (No One Gets Left Behind). Per due volte fa capolino con la sua classe anche Sufjan Stevens, il Brian Wilson del nuovo millennio ( o l’Iron and Wine dell’indie pop, se la prima definizione vi pare un po’ iperbolica). Un po’ fuori contesto, ma presente per motivi “narrativi” la spassosa Superfreak di Rick James, remixata per l’occasione. Sono i 5 minuti di intervallo del disco ( cominciato con Catwalkin' di Tony Tisdale), in cui i bambini escono fuori a giocare un po’: tutto il resto, molto semplicemente, è poesia.