V Video

R Recensione

6,5/10

Cat's Eyes

Treasure House

L’altro giorno pensavo che tutti noi siamo, chi più chi meno, revivalisti. Nel nostro piccolo ascoltiamo, consigliamo, suoniamo e scriviamo di cose che appartengono al nostro vissuto, che toccano le nostre corde. Non ha importanza se, come quasi sempre accade, i riferimenti temporali escono ben al di fuori del nostro diapason. Il trucco del modernismo che raccoglie e reinterpreta sta nell’unione di moderazione (nella citazione) e fantasia (nella personalizzazione). A differenza di molti altri i Cat’s Eyes di Faris Badwan e Rachel Zeffira, nuovi Federico da Montefeltro e Battista Sforza di una generazione curiosa ed inquieta, eccellono in entrambi i campi. Per quante strade creative possano battere, per quanti nuovi linguaggi possano esplorare, mai viene a mancare un costante, rispettoso riferimento alla tradizione da cui lui (“il” vocalist per eccellenza dei giovani-non più giovani britannici) e lei (gorgheggio d’usignolo e fattezze incantevoli) sono stati artisticamente forgiati. Così, i cinque anni che separano “Treasure House” dall’omonimo esordio, all’epoca battezzato (è il caso di dirlo) con un concerto a sorpresa a San Pietro, sembrano non essere mai passati, così come mai passata è l’infatuazione verso un certo immaginario, un certo suono, un certo status dei tempi andati, un glorioso memento che funge da tela per la proiezione degli incerti, tutti da costruire tempi che verranno.

Possiamo imbastire la seguente proporzione, lapidaria ma non meno efficace. “Cat’s Eyes” : Nino Rota = “Treasure House” : Phil Spector. Tradotto in parole più comprensibili: un uso degli arrangiamenti non più e non solo funzionale ai singoli brani, un’imponente polifonia armonica contenuta nello spazio vitale di una hit da classifica, un nocciolo mai come prima essenziale e lineare. Si considerino a parte lo spaccato paradisiaco di una title track che, rimanendo sotto i due minuti, volteggia con la grazia sinfonica e decadente di una scintilla felliniana, o il minimalismo sacrale, immacolato di “Everything Moves Towards The Sun”: il disco, nel suo complesso, suona smaccatamente pop, in maniera molto più pronunciata del suo predecessore. Non è detto che debba essere per forza un male. I ghirigori di archi e ottoni che infiorettano la baritonale “The Missing Hour”, per dire, piacerebbero moltissimo ai Baustelle più retrò e riflessivi: “Be Careful Where You Park Your Car” è lo spaccato yè-yè tutto Lee Hazlewood e John Barry; “Drag” è una semiballata pianistica, scolpita nel marmo, drammatica ed incalzante, laddove l’avanzare compatto di “Standoff” nasconde inusitate, grigiastre svisate post punk (il subconscio Horrors che torna a galla…) e “Names On The Mountains” recupera le dinamiche – spogliandole del loro elemento più marcatamente beat – degli Electric Prunes di “Mass In F Minor”.

La questione, per qualcuno, potrebbe porsi nei seguenti termini: ha senso, nel 2016, giocare i propri assi su di un raffinato disco di pop contemporaneo, che a tutto guarda tranne che alla contemporaneità? In che misura etichette come “retromania” e “reazione” possono davvero applicarsi ad un gruppo come i Cat’s Eyes? Ma, a ben vedere, sono domande oziose, retoriche, per un progetto che di certa retorica consapevolmente si pasce. “Treasure House” non è un album che vive sul senso del presente. Anzi: suo scopo è riempirne proprio alcune fratture insanabili, guardando alla sinistra e non alla destra dell’asse temporale. Di sicuro qui, come è già stato notato altrove, manca quello scossone, finanche didascalico, che animava più di un episodio dell’esordio: motivo per cui, ad esempio, il contrappunto corale che affianca il bordone di piano di “Chamaleon Queen” suona inutilmente enfatico e il sarcofago organistico che immobilizza il dream pop retrofuturistico di “We’ll Be Waiting” (come se i Goldfrapp di “Seventh Tree” fossero esistiti già nel 1966) si rivela limite ben più che possibilità aggiunta. Sarebbero contraccolpi forse evitabili, se Cat’s Eyes, più che un side project, fosse considerato cantiere degno di una propria, organica continuità: ma, questa volta sì, quale il senso di anteporlo agli Horrors e alla carriera solista della Zeffira?

Salvo improvvisi colpi di genio o inaspettate discese nell’abisso, lo standard (nomen omen…) dei Cat’s Eyes sarà questo: buona fattura sartoriale, autentica passione, nulla di più. Per tenuta complessiva, mezzo voto in meno rispetto al s/t del 2011.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.