John Carpenter
Lost Themes
That Thing, quella cosa, è uscita per Sacred Bones. Al che si trova a corrugare la fronte anche chi aveva spergiurato su madri terrene e divine di non istituire, a nessun costo, un collegamento tra David Lynch e John Carpenter, tra giganti del pensiero e dellazione, monarchi di un media che almeno temporaneamente hanno preferito posporre in favore di un altro, ad esso tangenziale ed inevitabilmente legato. Laffaire label, dunque. Dice lUomo Qualunque: e il cineasta di Missoula, Montana e quello di Carthage, New York, tra i massimi esponenti di un limbo cripto-underground a più riprese in copula con la cinematografia abbiente e danarosa (mancherebbe allappello Cronenberg, che ha però scelto la scrittura come via despressione alternativa, sbocciata nel fenomenale Consumed), avrebbero meritato per fama, per onore, per carriera qualcosa di più di unetichetta indipendente. Indipendente anchessa di facciata, lo si capisce, analizzato sommariamente il roster che ne rimpolpa fila ed introiti: dunque, lapprodo ideale per luno e per laltro. Una popolarità solida, ma discreta, non appariscente: la possibilità di sposare completa libertà artistica e rispondenza di pubblico; la certezza che, comunque vada, sarà un successo.
Qui, per il momento, si esauriscono le similitudini. Se Lynch ha scritto ad oggi due dischi fra loro complementari (Crazy Clown Time del 2011,The Big Dream primo per Sacred Bones di un paio danni successivo), che per molti versi andavano oltre, esacerbandolo o trasfigurandolo, il cerchio di topoi e fissazioni del loro autore, pur conservandone sempre in seno il germe primigenio, la musica di Carpenter i cui Lost Themes sono composizioni originali disgiunte dalla pellicola, assemblate via Logic Pro con lausilio del figlio Cody e di Brenden Barry Brown si esaurisce interamente nella sua estetica storica. Detta altrimenti, gli autografi che si animano fra questi solchi realizzati perlopiù con sintetizzatori, piani e batterie elettroniche di vario tipo, dal Moog allOberheim, passando per i mellotron differiscono in minima percentuale dalle colonne sonore di titoli di culto come Halloween e Escape From New York, anchesse eseguite dal regista e dai suoi più stretti collaboratori. Lunico scostamento di rilievo rispetto al passato (come intelligentemente notato anche da Anthony Fantano di The Needle Drop) è una certa tendenza allappiattimento e al congelamento dei suoni, che si susseguono asettici e senza sbavature: inevitabile effetto collaterale di una pianificazione digitale condotta fino allo stremo.
Ogni tessera di Lost Themes, dunque, sincastra proprio dove avreste immaginato. Nella maggioranza dei casi, la mente si affolla di numerosi e graditi ricordi: le rade e fondamentali note del riff pianistico di Vortex (roba che uno come Fabio Frizzi, per dire, si ascoltava da mane a sera), linaspettata piega che prende Fallen ingabbiandosi, da 2:35 in avanti, in un vortice cold wave di grande impatto emotivo (Umberto?), i fantasmi post blues che infestano Night, louverture neoclassica di Mystery spianata da un approccio orrorifico. Altrove emergono radicate criticità. Le poche comparsate di peso delle chitarre elettriche, ad esempio, si accompagnano sempre ad una sgradevole patina hard-glam da stadio di periferia che resuscita i finti Goblin di Phenomena (il titillare synth rock di Wraith) o, addirittura, lAOR dellultima ora, grottescamente appaiato ad organetti gotici e a beat dance (Domain sfida un po troppo apertamente il buon gusto). Obsidian, giustamente, è da trattarsi a parte, non tanto per quello che dice ma per come lo dice, giustapponendo sezioni di stasi romantica a incalzanti tronconi progressivi, sino al recupero in coda del riff iniziale.
La sensazione che qualcuno fra i più smaliziati potrebbe provare, tuttavia, è quella di un hype montato a regola per sfruttare laura di leggenda che circonda Carpenter, senza offrire nulla di rilevante in cambio. Non condividiamo il giudizio. Ma non presteremo il fianco ad entusiasmi di alcun tipo.
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