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R Recensione

6,5/10

Massimo Martellotta

One Man Sessions, Volume 3: One Man Orchestra

Per il capitolo centrale della propria personale epopea musicale in cinque atti, One Man Sessions, l’individuo polistrumentista Massimo Martellotta si dissolve nell’apparente molteplicità di un’orchestra contemporanea, un bizzarro ibrido tra le ariose big band degli anni ’50 e l’egocentrismo delle sovraincisioni digitali (con il computer, impiegato attivamente nella simulazione e nella riproduzione di timbri e suoni, a porsi come ideale trait d’union fra i due approcci). Il passo in avanti è affascinante e inconsueto, ma decisamente impegnativo, sia a livello concettuale che di composizione: non casualmente, infatti, è il primo volume in cui l’aspetto improvvisativo cede completamente il passo alla scrittura a monte, in cui ogni dettaglio – estetico, strumentale, atmosferico – è pianificato in anticipo. Questo controllo totalizzante innesca due dirette conseguenze. La prima, positiva, è una cura del prodotto anche superiore ai capitoli precedenti. La seconda, negativa, è una certa perdita di spontaneità che si riflette, de facto, sulla scorrevolezza del materiale proposto.

Duplice è anche la manifestazione concreta del filone orchestrale qui indagato da Martellotta. Sul primo versante spicca un gruppetto di brevi composizioni dal carattere marcatamente ludico. Intrigante, ad esempio, l’apertura sinestetica affidata a “Il Cappotto”, microsinfonia tra Stravinskij e Grieg con un certo afflato epico che prorompe impettito nel finale (poi rivisitato nello sbarazzino swing di “Senza Zucchero”, come il Piccioni pop art di fine anni ’60 o il Tariverdiev di Do svidanija, mal’čiki!): onomatopeico e zigzagante il passo circense di una “Baruffa” colorata a mo’ di Stalling; romantica e ariosa la “Serenata Per Adulteri” che, a metà strada, si inabissa in una lounge notturna per piano, Moog e contrabbasso. Ad esse – più per enumerazione di similitudini che per effettiva vicinanza, va detto – si può accomunare anche l’arrangiamento fiabesco del bel valzer pianistico “Come Una Favola”, un pezzo con ogni probabilità avanzato a “Unprepared Piano” e qui leggermente fuori contesto. Il secondo versante è invece monopolizzato da una serie di esplorazioni strumentali dal tessuto decisamente più frammentato e, complessivamente, meno avvincente: coerente è il crescendo drammatico degli archi di “Presa Di Coscienza” e felice la ripresa del Morricone free in “Attesa Notturna”, ma decisamente troppo lunga e faticosa è “Oppio” – fra i gialli italiani anni ’70 e certe roboanti astrazioni di Hans Zimmer – ed eccessivamente voluminoso l’arrangiamento che nasconde all’udito il tema di piano di “Reale Immaginario”.

Leggermente inferiore ai due capitoli precedenti, ma nondimeno impressionante nel testimoniare la vitalità e la versatilità artistica assoluta del suo factotum. Il passo successivo? Un nome, una garanzia: “Underwater”.

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