V Video

R Recensione

6,5/10

Starship 9

Starship 9

Pur perfettibile e attraversato da una serie di intense contraddizioni interne, “Stelvio”, l’EP con il quale Ernesto Cornetta e Fabio Fraschini si erano palesati sul mercato meno di un anno fa, riusciva nel compito di presentarsi e suonare come il leggero antipasto di una portata ben più sostanziosa, il primo passo verso l’approdo – o l’allunaggio? – degli Starship 9 alla striata nube di Oort della neo-library tricolore. Nel passaggio dal formato breve a quello lungo, il duo romano sfodera l’artiglieria pesante e convoca a corte un gran parterre di ospiti – ben tredici, fra strumentisti aggiunti e sporadiche comparsate esterne – per conferire al proprio s/t d’esordio un’allure da concept album d’altri tempi, un romanzetto d’appendice Urania (fascinazione tradita dalla salomonica copertina) in grado di coniugare immediata fruibilità e sofisticata sperimentazione.

Se l’approccio è incoraggiante, l’impresa, va detto, riesce solo in parte, ridimensionandosi poi progressivamente con l’avanzare degli ascolti. Per iniziare, un terzo della tracklist (tra brani ordinari e bonus tracks) è ripescato proprio da “Stelvio”, senza alcuna successiva variazione sostanziale: semmai, in un’economia di maggior respiro spicca ancor più il contrasto fra “Home Again” – che si riconferma pezzo di grande fattura artigianale – e “Cinema Roma”, un autografo dal melodismo melenso e prevedibile. Aggiungendo “Stelvio FM” – una bossa orchestrale impreziosita da sinestetici twang di chitarra e dai sample vocali di Cipriani, successivamente riarrangiata nella già nota versione cantata da Eleonora Cardellini (“Quei Giorni Insieme”) – e la buona cover french touch di “Dedicato A Una Stella” del compositore capitolino (dal celeberrimo lacrima movie di Luigi Cozzi, A.D. 1976), si arriva a “solo” sei inediti su dodici: un’importante scrematura quantitativa che, nel prosieguo, lascia intravedere alcune crepe anche a livello qualitativo. Molto buone l’intensa apertura cinematica di “Love Premiere”, tra fiabesche armonie à la Piovani e gentili coloriture space pop, e le striature psichedeliche di una malinconica “Andromeda” chiosata con abbondanza d’archi: mediamente riusciti il singolone “Berlin” (tra beat à la Lilacs & Champagne e gli impasti chitarra-batteria del Battisti di inizio anni ’80) e gli arrangiamenti frizzanti di una “Stereotypes” giocata su un roccioso 4/4; da rivedere la struttura generale di “Grand Hotel” (le dolcezze crepuscolari del violoncello di Giovanna Famulari non si sposano granché con le maggioritarie infiltrazioni Ex-Otago del pezzo) e l’esistenzialismo un po’ stantio – anche a livello melodico – di “Dust And Flowers” (alla voce un pezzo da novanta come Harold Bradley).

Per quanto avaro possa essere il giudizio, non sarebbe veritiero affermare che non ci si potesse aspettare una diversa maturazione, un salto di livello qui obiettivamente non riscontrabile. Aldilà della scrittura dei singoli episodi – altalenante, ma nel complesso oltre la sufficienza – il principale problema, iperonimico, è d’identità. Cosa vogliono essere gli Starship 9 e dove vogliono arrivare ce lo riveleranno, almeno si spera, i prossimi dischi. La fiducia concessa, che speriamo ben riposta, si traduce in un mezzo voto supplementare.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.