V Video

R Recensione

7/10

Otu

Clan

Dai tortuosi dedali delle periferie bergamasche sino al Fiscerprais Studio di Riccardo “Rico” Gamondi degli Uochi Tochi, la nuova e gradita sorpresa dello sconfinato landscape hip hop italiano viene quasi inavvertitamente risputata fuori, dal grembo dell’underground, a contatto con la nuda e butterata superficie dell’ambito di appartenenza. Che poi, ambito di appartenenza… Una parola definirlo. Come un “Endtroducing…”, solo vent’anni dopo e, per di più, quasi completamente suonato (e no, tirare in ballo i Roots non può valere per sempre): come una catasta di significato metamusicale che nel mash upWugazi e dintorni, tanto per intenderci – trovi la sua legittimazione artistica; come un Flying Lotus senza frammentazione né schizofrenia; oppure, chi lo sa, come un reboot – giusto un pelo meno avventuroso – di Shape Of Broad Minds, Shabazz Palaces o Run The Jewels. Cose che in Italia (tanto per ammazzare in culla la discussione e dare la stura al chiacchiericcio) non vanno di moda, e chissà se e quando lo saranno: Otu è un progetto che di quest’ambiguità si pasce e su queste contraddizioni costruisce un messaggio compiuto e coerente.

Due i mastermind dietro il flusso di coscienza di “Clan”: Francesco Crovetto, produttore e batterista, e Isaia Invernizzi, a chitarra e Omnichord. Le due anime agiscono all’unisono, rispettando un perfetto principio di complementarietà: tanto quadrato e solido lo stile del primo, quanto eterogeneo e melodicamente variegato quello del secondo. In comune, una certa cerebralità d’approccio e, naturalmente, il mosaico di voci campionate dai rispettivi sampler: iconiche parole in libertà, un manifesto nel manifesto, una cartina al tornasole artistica che giustappone simboli del presente e del passato, reali o immaginari. La grande complessità che deriva dall’impianto concettuale è pari solo all’ambizione con cui il concept viene portato avanti: un pastiche realmente indefinibile, dove percolato West Coast e vaporose armonie retrò-soul convivono senza scontrarsi (“Mark”), il trip hop incuba emozionanti arpeggiati fugaziani e riffing quasi matematici (“Peter”), l’exotica si fa inquietante rifrazione carpenteriana (“Santos”), elementari bordoni reggono la baracca di epici storytelling cinematografici (“Ali”), Mogwai e Massive Attack si materializzano nello stesso pezzo (“Wendy”) e i bassi si fanno più acidi e pervasivi (la dubstep di “Q/Ter” è l’unico frangente realmente distonico dell’intero lavoro). Se anche a tratti si ha la sensazione che non proprio tutto sia effettivamente funzionale al discorso (superflui, a detta di chi scrive, sono l’urban reggaeggiante di “Jay/G” e il prolisso western sospeso di “Hal”), particolarmente interessante rimane comunque “Edward” che – appoggiandosi su un beat lynchiano e su una costruzione post rock vecchio stampo – inventa una seconda grande metà di frastornante immobilismo drone, una chitarra impiegata a guisa di sirena antiaerea e rimpallata da pochi, essenziali tocchi di piatti.

Stimolante e abbondante. Il successo artistico di Otu è appena iniziato.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.