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R Recensione

7/10

Ronin

Adagio Furioso

Fenice” era stato, ad un tempo, trampolino di lancio e rivincita, insieme personale ed artistica, per i Ronin di Bruno Dorella, scottati dalla deludente risposta di pubblico e critica al pur eccellente “L’Ultimo Re” (potete carpire qualche dettaglio in più a tal proposito, qualora lo vogliate, in questa esemplare intervista di qualche anno fa). La rinascita era passata per un disco palpitante, emozionante, densissimo nei contenuti e nobile come pochi nella forma. Quando, allora, dal suo banco di regia Tommaso Colliva arriva a definire l’atteso successore “Adagio Furioso” (edizione limitata a cinquecento esemplari, di cui i primi duecento in vinile bianco) dolcemente macabro, eroicamente perdente, epicamente morbido”, l’alone di mistero sinestetico che viene a crearsi promette qualcosa di diverso, sottintendendo – finanche inconsapevolmente – qualcosa di meglio. Permettendomi il lusso del dissenso sulla seconda metà (il pur bravo Cristian Nalli dei Fulkanelli non ha la fluidità tecnica di Nicola Ratti, e il battito dell’ex Above The Tree And The E-Side Matteo Sideri non possiede la varietà cromatica di quello di Paolo Mongardi) , non v’è dubbio che la curiosità trova ampio soddisfacimento nella realizzazione della prima.

Una volta stratificato, impreziosito e massificato il proprio suono, i Ronin di “Adagio Furioso” fingono di attenersi al canone stilizzato: evocazione cinematica, chitarre romantiche, tramonti western e languide introspezioni slowcore. I radi e distratti ascolti che bagnano l’approccio al disco lasciano apprezzare solamente la solidità del songwriting, senza per questo indugiare sulle novità, che tuttavia esistono, ed esistono in gran numero. Un paio, a mo’ di exemplum. Tanto più rilevante quanta più attenzione specifica si dedica ad ogni singola traccia è un certo scivolamento della band, teso e sottocutaneo, verso il prog: con questo non s’intende tanto la forma suite o l’esibizionismo strumentale, ma la disarmante naturalezza con cui un quartetto pur nuovo di zecca si destreggia fra temi e sezioni solo apparentemente ricorsivi. Non è una novità per i Ronin – e chi ha visto duettare dal vivo le chitarre di Dorella e Ratti sa a cosa ci si riferisce –, ma gli ammiccamenti qui si moltiplicano. Troneggia, sopra tutte, la magnifica “Ex”, un minuzioso studio in tempi dispari sulla modulazione in crescendo dell’arpeggio post-blues (come se a Fripp venisse in mente di suonare à la Rashanim) che scivola su languide melodie in minore prima di consumarsi in un pirotecnico, inaspettato, decadente assalto in D-beat (la maison degli Usher travolta da 400 colpi, e si sentono tutti). Truffaut, già, e quella plumbea, uggiosa Nouvelle Vague che si imprime, tremolante, nella maestosa opener “La Cinese” (prego munirsi di spesse cuffie per apprezzare l’intelligente contrappunto di basso della new entry Diego Pasini, in contrasto intestino e tenace con il violino melò di Nicola Manzan), alternandosi con la spavalda giocoleria tex mex di “Gilgamesh”, un’impolverata patchanka accesa dall’indiavolato flauto di Claudia Muratori, finendo infine schiacciata dalla prospettiva bicroma e marcescente della title-track, un valzerino straussiano per chitarre deformato dagli archi sbilenchi di Matt Howden.

Poi ci sono i Ronin pop: inediti, umanissimi, lontanissimi dal suonare scontati. Un sincero tuffo al cuore è “Far Out”, indicibile delizia di centoventi secondi o poco più, che prende il discorso alla larga: la voce (tonalità incantevole, inglese perfetto) è quella eterea e vagamente glottidale di Francesca Amati, già in Comaneci e Amycanbe, di cui abbiamo già segnalato l’altro recente featuring dorato, quello in “The Seed And The Soil” dei Guano Padano. Il sodalizio si ripropone ad un anno di distanza da “Animal’s Eyes”, brano che accompagnava i titoli di coda del lungometraggio della cineasta milanese Alina Marazzi “Tutto parla di te”: se lì, tuttavia, il combo sembrava una versione appena più raffinata dei Cranberries di fine secolo, qui il nitrato d’argento si modella su uno struggente lento american surf, di quelli che si fa fatica a dimenticare. Sfrontata e diretta è, invece, “Preacher Man”, un blues rugginoso e un po’ caciarone, nel cui ritornello finiscono addirittura brandelli chitarristici della “Island In The Sun” weezeriana (influenza inconsapevole?): sicuramente migliori le mediazioni di “Ravenna” (il requiem dello spirito di un’Emilia che sembra Bruges) e del singolo “Catfish”, i Calexico delle armonie tattili, dimesse e vellutate.

Adagio Furioso” è come dovrebbe suonare qualsiasi disco strumentale: pieno, solido, coraggioso, intraprendente. Com’è venuta la guerra, venga il successo: i Ronin resisteranno all’una e all’altro.

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