Ronin
Bruto Minore
A ventanni di distanza dalla loro formazione ufficiale, non pare fuori luogo affermare che delineare una sintetica cronistoria dei Ronin e della loro carriera equivale, in sostanza, a seguire la coerente evoluzione del gusto estetico dellallora giovane batterista dei Wolfango, per loccasione riconvertitosi a chitarrista in risposta ad una nuova ed insopprimibile esigenza espressiva. Il secondo decennio di attività della creatura di Bruno Dorella, in particolare, ha fatto maturare i risultati più interessanti: se Fenice (2012), a detta di chi scrive lapice indiscusso della band, era disco di ispirazione melodica e di compattezza strutturale invidiabili, e il successivo Adagio Furioso (2014) provava a spostare ancora più in alto lasticella dellambizione tecnica e dellopulenza sonora, il sesto full length Bruto Minore (che deve il suo nome ad un gioco linguistico tra una Canzone leopardiana e gli strati di senso evocati dallassociazione di parole in italiano contemporaneo) è, di fatto, un pregevole lavoro di sintesi, dove la pur non indifferente cifra innovativa è controbilanciata da una riflessione retrospettiva sul ruolo e sulleredità artistica della ragione sociale.
Rifondata radicalmente la lineup (è la terza volta in sette anni), la scrittura di Dorella è ora messa al servizio della formazione tecnicamente più duttile e preparata che i Ronin abbiano mai potuto vantare: dentro, al posto di Cristian Nalli e Matteo Sideri, lintero blocco di Bologna Violenta (anche se Nicola Manzan può considerarsi membro ad honorem già da parecchio tempo) e, al basso, il turnista Roberto Villa per Diego Pasini. Dettaglio curioso, questa abbondanza di primi calibri, se anche di tanto in tanto agghinda gli inediti con ghirlande di arrangiamenti appena più stratificati che in passato, quasi mai si traduce in uneffettiva complessità tematica. In più di un passaggio, anzi, il risultato va nella direzione esattamente opposta: suonare meno per suonare meglio (il materico e minimale desert blues di Wicked, cui il clarinetto di Villa si oppone in coda con un delicato senso del contrappunto), rarefare la materia al punto da non distinguere più correttamente i contorni delle cose (la versione marziale, tra post rock e folk apocalittico, di Tuvan Internazionale) e stirare indefinitamente la percezione temporale (lemozionante racconto slowcore di Bryson, suonato in punta di dita). Da questa prospettiva, anche la ripresa di vecchi topoi assume un altro spessore: la title track, che richiama la decadenza eroica dellassalto sonoro di Ex, respira in una sezione centrale di arpeggi grigiastri (il commento strumentale al Non uccidere kieślowskiano prima che si apra la botola sotto i piedi di Jacek), mentre la sciarada westernata di Oregon inietta generose dosi meatpuppetsiane nel negativo delleuforica Jambiya.
Bruto Minore è un disco che vale la pena ascoltare, più ancora che in passato, con pazienza e attenzione, provando a coglierne sfumature e articolazioni. Lasciandosi sorprendere, ad esempio, dalle vampe elettriche che eruttano ad intermittenza dal corpo barocco di Capriccio (la musica da camera che incontra certe tentazioni ematematiche di metà anni 90: il pezzo che inaugura la tracklist e, con ogni probabilità, anche il migliore). Ammirando limpeccabile continuum tra lo studio chitarristico di Scherzo Quasi Maggiore e il groove swingato su cui danzano le torniture strumentali e i salti di tono di Scherzo (se non lepisodio più tecnico del disco, sicuramente quello dove emerge tutta la formazione classica di Manzan). Perdendosi, infine, nelle anse della metamorfica Ambush, un languido chiaro di luna jazzato che svolta improvvisamente in un anodino fraseggio bluesy e rinasce lentamente dalle proprie ceneri, in una tenue (de)costruzione post rock. Naufragando, per non tornare a galla.
Conferma di forma e sostanza. Un ritorno, lennesimo per Dorella e compagni, il cui senso non si esaurisce nellautoreferenzialità mediatica. Disco consigliato.
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