Brian Eno
Small Craft On A Milk Sea
Il non musicista per eccellenza dei giorni nostri è certamente Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno o, più semplicemente, Eno. La sua carriera è talmente lunga e complicata che racchiuderla in un’insulsa recensione sarebbe oltraggioso. Eno ormai ha sessantadue anni e la maturità raggiunta lo ha spinto a pubblicare un disco ambiguo, che sa di carne e di pesce. “Small Craft On A Milk Sea” forse rappresenta proprio la sua condizione di piccola barca che veleggia in un mare di latte, una sorta di viaggio senza rotta precisa. Questo lavoro si presenta dunque in una duplice veste: da un lato in quella ambientale tipica di “Music For Airports” o “Music For Films”, dall’altro in quella più eminentemente rumorosa, degna di un rave party britannico. Brian Eno si presenta quindi come un piacente signore di mezz’età che conserva la mente di un diciottenne attaccabrighe e spavaldo. In tutto ciò, Eno e i suoi computer sono coadiuvati dal promettente Jon Hopkins alle tastiere, da Leo Abrahams alle chitarre e da Jez Wiles alle percussioni.
In principio c’è la desolata steppa di “Emerald And Lime”, “Complex Heaven” e “Small Craft On A Milk Sea”. Il suono è lamentoso ma attentamente studiato, pieno di riflessi sonori e pianoforti in disuso, con un’inflessione decisa verso la disperazione, verso un vuoto fisico, un’assenza di opportunità, una mancanza di arbitrio. I fans più accaniti troveranno poche novità d’ora in poi, giacché da qui il disco si innesta nel binario della sperimentazione elettronica che, partendo dall’astrazione di “Flint March” arriva al nucleo duro di “Horse”, quindi al più spietato e assordante psicodramma di “2 Forms Of Anger”, vero e proprio centro gravitazionale dell’intero lavoro. L’elettronica si fa stranamente sempliciotta in “Bone Jump”, tanto da sembrare una riproposizione di melodie midi per un eventuale karaoke del terzo millennio. E qui cade l’asino. Il sound di Eno, di così difficile presa presso le masse, trova la sua ragion d’essere nella commistione di sacro e profano, di tendenza pop e sguardo contemporaneo, di musica cinematografica e musica da salotto. Con “Dust Shuffle” e “Paleosonic” il discorso non cambia. La trama intessuta è ancora intricata, è cemento a presa rapida, è suono volgare ed aristocratico ad un tempo.
In “Slow Ice, Old Moon” si ha l’inversione di rotta: il discorso incendiario che Eno voleva argomentare è finito e siamo nuovamente in balia della barchetta sul mare di latte. Figure spettrali seguono la scia e non rispondono a nessuno dei nostri questiti; un paradiso di stelle cadenti ci attende in “Lesser Heaven” mentre i respiri di Madre Natura ci attendono in “Calcium Needles”. Il tema iniziale, tra prosa e peosia, dello smeraldo e della calce lo ritroviamo con “Emerald And Stone”, mentre l’usura dei giorni della perdizione viene ritratta nell’uggioso mattino di “Written, Forgotten”. Facciamo ritorno alla nostra coscienza allorché “Late Anthropocene” ci investe con la sua carica di finto ottimismo: il tardo antropocene del titolo si riferisce sicuramente al periodo che stiamo vivendo e all’inadeguatezza che si prova dinanzi allo spergiuro della civiltà umana. Infine, in “Invisibile” la barca su cui sicuri navigavamo si rovescia e il bianco latte che prima permetteva il nostro transito ora ci annega.
Con questo disco Brian Eno ha portato una ventata reazionaria nella musica inglese ed europea, un paradosso intellettuale che esalta e degrada l’uomo moderno, che continuamente lo scaglia contro i propri limiti fisici consigliandogli di usare l’istinto.
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