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R Recensione

10/10

Daft Punk

Homework

I Daft Punk sono senza dubbio una delle poche e più fulgide icone pop degli ultimi 20 anni. Hanno cavalcato e in qualche misura precorso, grazie alla straordinaria popolarità conseguita e a pirotecnici spettacoli dal vivo, il mutamento della figura del dj, assurto sempre più a leader carismatico dal folto popolo di music addicted, mantenendo, al contempo, lo status di band di culto, per altro dotata di una delle immagini più immediatamente riconoscibili dei nostri tempi. Krafterkianamente robotizzatosi, il duo francese ha annullato le proprie identità individuali e ha fatto della propria arte, quasi totalmente scevra della presenza fisica dei propri creatori, pura finzione (in quanto non rappresentativa in nessun modo del vissuto degli autori) e al contempo puro messaggio (il rischio di de-umanizzazione derivato dal debordare del progresso tecnologico, in RAM, la consapevolezza delle proprie fragilità e dei sentimenti, presenti anche in un mondo sempre più macchina-centrico, in Human After All, ecc.), attraverso una sintesi concettuale mirabile, esternata in brevi slogan, seguendo, ancora una volta, la lezione della band di Dusseldorf. Vieppiù, i Daft Punk sono stati tra i primi e più persistenti retromaniaci nella storia, quanto meno della musica elettronica, esasperando questa tendenza fino all’eccesso nell’ultima uscita dello scorso anno, Random Access Memories, accolto con toni trionfali come manco l’elezione di Obama, sebbene, ad essere onesti, abbia lasciato un segno piuttosto impalpabile sugli sviluppi di qualsivoglia corrente ad oggi in atto. Ma non è sempre stato così. Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter non sempre stati i due androidi più famosi della Terra. C’è stato un tempo in cui addirittura si lasciavano intervistare e fotografare esponendosi direttamente, sebbene questo succedesse spesso controvoglia, al più mascherandosi con delle grottesche caricature dei propri volti (qualcuno ha detto Disclosure?); addirittura, c’è stato un tempo in cui suonavano rock con “strumenti veri”, insieme al loro amico Laurent Brancowitz, successivamente divenuto chitarrista di un altro complesso cardine del french touch, ovvero i Phoenix. Molte cose sono cambiate da allora, ma due aspetti in particolare sono rimasti ben saldi nell’universo Daft Punk: l’uno è l’intransigenza dei due francesi, da sempre maniaci del controllo su tutto ciò che concerne le proprie pubblicazioni e il proprio status pubblico, caratteristica, questa, che li portò a firmare una particolare formula di contratto con la Virgin che prevedeva, in cambio di percentuali di guadagno ridotte, la totale supervisione degli artisti sul proprio materiale. Situazione chimerica nei nostri giorni di coma discografico, riflette quasi una consapevolezza di predestinazione al successo globale di Thomas e Guy-Manuel, a patto che, per ottenerlo, non si fosse accettato alcun compromesso. Il secondo aspetto fondamentale è la già menzionata retromania, da sempre marchio di fabbrica daftpunkiano. Homework, il debutto dei parigini, marca, grazie a questa ed altre caratteristiche che in seguito si analizzeranno, uno scarto notevole da tutto il resto della scena dance o techno, nel 1997, che erano ancora, per lo più, lanciatissime verso il futuro come da prassi per il genere. Distante dal Big Beat psichedelico dei Chemical Brothers e ancor di più da quello zarro dei Prodigy, privo dell’afflato progressive-techno di complessi come gli Underworld, non molto melodico e quindi distante anche dall’eurodance, acido, ma troppo contenuto e dandystico per essere accostato all’ hardcore techno e ai suoi sottogeneri, passatista, ma non certo bozzettista e quasi caricaturale come il connazionale Dimitri From Paris di Sacrebleau, l’album qui preso in esame pesca piuttosto a piene mani da movimenti quali l’acid house, la Chicago e la Detroit techno, l’HI-NRG, l’italo disco (sebbene qui in maniera marginale, troverà massima consacrazione nel successivo Discovery), fino a risalire ai primordi della musica da ballo moderna, ovvero alla disco, al soul e al funky. Risulta, in ogni caso, fondamentalmente superfluo soffermarsi nel dettaglio sui singoli artisti ispiratori di quest’opera, d’altro canto, tramite un brillante coup de theatre i non ancora robottini ce li rivelano in Teachers (da notare la sagace ironia e leggerezza di fondo che pervade sottopelle il disco: i compiti a casa, homework in inglese, te li assegnano gli insegnanti, teachers…). Tanto non se ne caverebbe comunque un ragno dal buco: da finissimi divoratori di cultura pop, i Daft quel che fagocitano lo risputano in un ibrido che può anche non avere nulla a che vedere con la fonte originale, in un gioco di sample di scuola hip hop che può in qualche modo essere accostato a quello compiuto da Dj Shadow in Entroducing…, l’anno precedente, ma più che altro per il procedimento adottato, in quanto anche in questo caso i risultati finali sono profondamente diversi. Insomma, se ancora non lo si fosse capito, nulla assomigliava ad Homework nell’anno della sua pubblicazione e questo grazie ad una filosofia musicale ostinatamente perseguita nel corso di tutte le 16 tracce che lo compongono. Tale filosofia è un po’ la teorizzazione del metodo Daft Punk e si compone di alcuni punti fondamentali, adoperati, seppur a grandi linee e in maniera meno ferrea, nel corso di tutta la carriera:

ottenere il massimo con il minimo sforzo: tre-quattro campioni al massimo sono sufficienti, l’importante è ottenere un mood pervasivo ed efficace, che sia esso languido, acido, nevrotico, ecc…; è bene non “sporcare” l’idea originaria con eccessive stratificazioni, less is better;

- loop the looping: strettamente collegato al punto precedente, mediante la reiterazione imperitura di brevi frammenti sonori si penetra in profondità nella psiche dell'ascoltatore; c'è, in sostanza, un ritorno ad una forma di minimalismo tipica dei padri dell'elettronica;

- back to the groove: qui entra in gioco la componente negroide di matrice ’70’s accennata sopra; la batteria, rigorosamente dritta, è massiccia e potentissima, i bassi, pulsanti e vivi, sincopati come nella miglior scuola Chic e Kool And The Gang, trascinano il corpo, insomma viene ridata importanza alla dimensione primordialmente fisica della musica da ballo.

Quest'ultimo punto ha particolare rilevanza: nonostante l'accurato studio alla base, Homework è un album dall'aspetto ludico molto spiccato e la joie de vivre che lo permea dà origine ad una sequela di pezzi mozzafiato, quasi tutti strumentali (alla faccia di chi confonde il vero ruolo del vocoder nell'arte daftpunkiana, ergendolo ad emblema della stessa, quando in realtà altro non è se non un accessorio), caratterizzati da samples basilari molto semplici ed immediati, che si stampano subito in testa. O forse mi si vuol dire che è possibile scordarsi del prepotente riff di synth di Da Funk, singolo emblema sorretto da un pattern di batteria che è puro testosterone funky? La maniera in cui, a metà pezzo, l'atmosfera viene sconvolta con il solo ausilio di un arpeggiatore completamente marcio ed impazzito è pura classe. Ossessionante fino al delirio è poi la celeberrima Around The World, gioiello pop postmoderno che mischia in un ardito gioco ad incastri, più prossimo ad una composizione architettonica che a un pezzo house, i quattro classici strumenti del pop (o meglio, le reminescenze campionate degli stessi) con le tre parole del titolo, declamate dal primo vocoder mai apparso su un disco del duo, con un'insistenza drogata, ottusa e del tutto incurante dei limiti del buon senso. Rollin' & Scratchin' e Rock 'n' Roll sono altri due tour de force, probabilmente i più estenuanti: caratterizzate da una durata superiore ai sette minuti, entrambe le tracce si reggono su violente basi acid house su cui si stagliano semplicemente schegge rumoristiche, ora tossiche, nella prima, ora laceranti, nella seconda; entrambi i pezzi sono schiaffi di pura paranoia mollati in faccia all'ascoltatore, ma la cui ripetizione continua, genera in un certo senso un perverso piacere, derivato da una percezione uditiva e sensoriale a quel punto divenuta alterata. Le perle, comunque, non si esauriscono certo con questi quattro esempi, bensì pullulano: si pensi al geniale bignamino di inquietudine urban che è Oh Yeah, la quale va a lambire quasi territori post dubstep e grime (!), al minuto e ventitré filato di sole percussioni che introduce la gioiosa Phoenix, al sincretismo totale di Burnin', che riesce a sintetizzare in un solo pezzo tutti i principali aspetti dell'album, basso disco, acid house, sirene noise, ecc.  E' doveroso, infine, menzionare Alive, brano sontuoso, ripreso nelle denominazioni dei vari spettacoli dal vivo pubblicati in veste ufficiale (rimarchevole la differenza tra il più comune termine live e questo, che riveste, in inglese, l'accezione di cosa viva), caratterizzato da spericolati incroci di synth completamente imbevuti di echi e riverberi, che creano un effetto quasi shoegaze, in una corsa sostenuta, ma non frenetica, verso lontane galassie.

Grazie a questo folgorante debutto, Bangalter e De Homem-Christo, si ritroveranno, poco più che ventenni, ad essere contemporaneamente star della scena underground e conquistatori delle hit parade di mezzo mondo, ponendosi come il nome di punta della rinascita francese di fine anni '90, rinascita che perdura ancora oggi. Insieme al successivo Discovery, Homework rappresenta il manifesto estetico della nuova dance o, meglio del nuovo pop: imbevuto di ricordi e nostalgia, ma non rassegnato a diventare esso stesso una sterile emulazione di modelli passati, gioioso, elettronico, umano.

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Voto degli utenti: 9/10 in media su 11 voti.
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brian 9/10
max997 7/10
yanquiuxo 8,5/10

C Commenti

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zagor (ha votato 8,5 questo disco) alle 14:41 del 26 agosto 2014 ha scritto:

Il loro miglior disco, "da funk" pezzo schiacciasassi come pochi.

Lepo, autore, alle 15:04 del 26 agosto 2014 ha scritto:

Personalmente non so decidermi tra

Lepo, autore, alle 15:06 del 26 agosto 2014 ha scritto:

Ho sbagliato a commentare: personalmente non so decidermi tra questo e Discovery, entrambi fondamentali pur essendo diversissimi, probabilmente il secondo ha lasciato un'impronta ancora maggiore sulla musica successiva... Questo come dici tu ha diversi pezzi schiacciasassi, da funk di sicuro, ma anche altre non hanno nulla da invidiarle

zagor (ha votato 8,5 questo disco) alle 15:39 del 26 agosto 2014 ha scritto:

"da funk" che tra l'altro fu un po' scopiazzata da madonna in "Music"....giusto per ricordare l'impatto che ha avuto LOL. "discovery" per me è decisamente meno ispirato, "homework" fu come aprire una finestra in una stanza dopo anni di chiusura.

Dr.Paul (ha votato 9 questo disco) alle 19:30 del 26 agosto 2014 ha scritto:

grandissimo disco, il mio preferito in assoluto dei daft punk! bravissimo giacomo....certo lasciar fuori dai video quello di around the world è un'imprudenza imperdonabile...

Lepo, autore, alle 19:53 del 26 agosto 2014 ha scritto:

Grazie mille Paul!! Eheh concedimi questo snobismo, comunque chi non conosce quel video probabilmente non ne ha visti più di 10 in vita sua credo!! Trovo in ogni caso che tutta quella serie di videoclip è assolutamente geniale, ma nel circondarsi dei giusti art directors i due sono sempre stati impeccabili, vedasi l'anime Interstella 555 o Electroma

nebraska82 (ha votato 8,5 questo disco) alle 22:30 del 30 agosto 2014 ha scritto:

vabbè disco storico, in grado di unire definitivamente il mondo "dance" e quello dei rockettari.

zagor (ha votato 8,5 questo disco) alle 13:46 del primo settembre 2014 ha scritto:

mitico anche il booklet, sia con una delle rare foto dei sue, sia soprattutto con la foto della scrivania con tutte le varie icone 70-80 ( dai kiss a playboy fino agli chic)

brian (ha votato 9 questo disco) alle 10:36 del 16 settembre 2014 ha scritto:

Uno dei dischi-chiave del decennio, i novanta sono stati anche Homework, bella recensione.

Dusk alle 14:15 del 22 aprile 2020 ha scritto:

Disco ultraterreno, pietra miliare e recensione sul pezzo. Homework ha già dimostrato di essere una roccia poco scalfita dal test del tempo. Bravo Lepo!