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R Recensione

6/10

Eluvium

Nightmare Ending

L'uscita di un doppio disco firmato da Matthew Cooper, fino a qualche anno fa, avrebbe suscitato quel giusto clamore che ci si aspetterebbe da un sostanzioso – e, mediaticamente, importante – comeback artistico. In tramontare negli ultimi tempi, la concezione neoclassica e post-romantica dell'ambient che, in Eluvium, ha trovato un pioniere sperimentatore ed un baluardo in grado di cementare le proprie conquiste, si concretizza in un “Nightmare Ending” che è sigillo di qualità, ancor prima (e molto più che) apertura solenne di una nuova fase. Non è, quindi, un ritorno che taglia un nuovo nastro, che abbatte una nuova frontiera. Non è la reificazione dei soundscapes ed il loro adattamento ad una forma gradatamente più umana, come succedeva nel passaggio – a tratti traumatico – fra l'eterea, sublime sensibilità di “Copia” ed i toni gracili, dimessi, in minore di “Similes”. “Nightmare Ending” li contiene entrambi, come contiene “Talk Amongst The Trees” e “An Accidental Memory In The Case Of Death”: è il punto fermo dell'artista Eluvium, la summa ad uso e consumo di chi ancora non sa (e vorrebbe sapere). Non stupisce affatto che questi movimenti siano, in realtà, di composizione non esattamente recente, bensì concentrati in quel lasso di tempo, 2007-2010, che così tanto – in retrospettiva – ha sparigliato le carte in casa Cooper e, chissà, ne ha forse condizionato le fortune.

Sembra titanica, l'impresa di trovare un filo logico comune in più di un'ora e venti, densissima, di musica cosmica ed astrale. Per chi già conosce il modus operandi di Eluvium, in realtà, non appare impossibile individuare, a naso, i tre filoni che costituiscono il corpo solido di “Nightmare Ending”: il post rock dronato in accumulo e crescendo sublime, le ballate pianistiche, i brani di totale stasi ambientale. Più che per dischi, insomma, converrebbe seguire – per amore di precisione e di correttezza – la linea appena indicata sopra. Particolarmente brillanti sono gli excerpts che, forzatamente o meno, si possono catalogare come spaccati di vivida scrittura a volute: un bordone melodico in avviluppamento costante dal quale si dipanano traiettorie secondarie, sfumate ed angeliche. Eccellenti sono le due aperture, con il passo catatonico di “Chime” (chitarra, alla prima ed unica apparizione, e pianoforte inesorabilmente a braccetto) rinchiuso in un sarcofago noise e, soprattutto, “Don't Get Any Closer”, i cui candidi strati di suono sono leggermente solcati da un tocco isolazionista e ricorsivo. “Covered In Writing” che, nel secondo disco, si pone come riedizione moderna di un Notturno chopiniano, cristallizzata in un'algida ed immutabile atmosfera à la Rapoon (una “Repose In Blue” all'ennesima potenza, per farla stringata), pone peraltro le basi per il giusto approccio mentale ai segmenti più riflessivi. Se “Warm” ricorda da vicino “Indoor Swimming At The Space Station”, senza nemmeno spostare il baricentro della forza espressiva, ed inarrestabile è il concentrarsi di volumi nell'essenziale “Rain Gently”, è al contrario noioso l'esercizio glitch informe di “Unknown Variation”, e suonano fuori tempo massimo i flanger emozionali di “Envenom Mettle”, tra Stars Of The Lid e Sigur Rós.

Nessuna sostanziale sorpresa anche laddove il piano takes it all, conquista l'intero proscenio, con niente (o quasi) tutto attorno. “Caroling”, nel primo disco, è un valzer esiguo e delicato, tutto sommato ugualmente lontano dalla malinconia autunnale che sprigionerà, più avanti, “Impromptu (For The Procession)”, vicina al Ludovico Einaudi di metà anni '90 – sono questi i momenti in cui ci si chiede: perché fare uscire “Nightmare Ending” alle porte dell'estate? –, e dal neoclassicismo di “Entendre”, il cui flusso adamantino sembra rallentare ed incespicare a comando. È, nei fatti, un compendio di quanto Eluvium – basti un titolo su tutti, l'indimenticabile “Prelude For Time Feelers” – ha già regalato, comunicativamente ancor prima che stilisticamente o tecnicamente, sui tasti neri e bianchi: assenza di nuove, qualche conferma, molta riproposizione (in minore). Il cerchio si chiude, infine, con l'ultimo episodio. “Happiness” è la sommessa dichiarazione di Ira Kaplan degli Yo La Tengo, sigillato in un contenitore pop a tenuta stagna in sfumare costante, indefinito – Richard Young, esatto – verso un'esegesi di puri droni: la lezione di “Similes” sfrondata dalle mezze misure.

Un bel sentire, ma nulla più. Deciderete voi, in autonomia, se trattasi di bene o di male. Noi suggeriamo un'indicazione.

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