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R Recensione

7/10

Jakszyk, Fripp, Collins

A Scarcity Of Miracles - A King Crimson ProjeKct

Questo non è un nuovo album dei King Crimson: sgombriamo subito il campo da dubbi. E, nonostante quanto dichiaratamente riportato in bella evidenza sulla copertina (in cui si legge “A King Crimson ProjeKct”), nessuna schizoide contiguità si rileva fra “A Scarcity Of Miracles” e le geniali intuizioni derivate dalla frammentazione (o fraKctalizzazione, come si scrisse all’epoca) del gruppo madre in sottounità operative che prese il via dopo il “rompete le righe” della formazione a doppio trio (Fripp/Levin/Bruford/Belew/Gunn/Mastelotto), avvenuto nel 1996, a conclusione della tournée seguita a “THRAK” (1995). Nessuna stretta connessione con quel crimsonico suono “rinnovato” nel capitale “Discipline” (1981) o con quelle asperità / dissonanze nei confronti delle quali tutti coloro che si accostano alla musica delle varie incarnazioni dei King Crimson devono fare i conti. E ciò nonostante il fatto che i musicisti chiamati a dare vita ad “A Scarcity Of Miracles” siano legati da patto di sangue con sua Maestà Cremisi in persona.

Di Robert Fripp non ci sono note inedite da riportare, tanto è dentro la più alta Storia della Musica, senza esporsi in inutili ripetizioni. Tony Levin al basso e ovviamente al “suo” Chapman stick non ha certo bisogno di presentazioni essendo intriso della viva materia crimsoniana dal risorgimento costituito proprio dal citato “Discipline”. Mel Collins, flautista e sassofonista dal foltissimo curriculum (da ricordare almeno Camel, Bad Company, Alan Parsons Project, no-man, 21st Century Schizoid Band), è stato nella viscerale formazione di “Islands” (1971), sebbene il suo contributo alla discografia crimsoniana si estenda anche a “Lizard” del 1970 e a “Red” del 1974. Ma è proprio con la sua partecipazione alla combriccola costituita insieme a Fripp, Boz Burrell (basso e voce) e Ian Wallace (immenso batterista, mai abbastanza compianto), che i KC sono esistiti, fra 1971 e 1972, nella più vibrante e creativa modalità della loro intera carriera, lambendo territori avant-jazz e toccando vette sperimentali per nulla inferiori a quelle raggiunte in modo forse più compiuto dalla line-up che da lì a breve sarebbe seguita (1973-1974: Fripp/Wetton/Bruford + Muir). Continuando l’excursus su ideologi ed esecutori di “A Scarcity Of Miracles” ci imbattiamo in Gavin Harrison alla batteria, noto a tutti come valente session-man (anche lungamente a servizio di Jakko Jakszyk, Franco Battiato e Messer Claudio Baglioni), per aver sostituito Chris Maitland nei Porcupine Tree e per essere stato annoverato nell’ultima incarnazione dei King Crimson (dal 2008). Quello di Jakko Jakszyk è uno di quei nomi che, nonostante l’ardua impresa nel pronunciarlo correttamente, ha attraversato tre decenni di musica lasciando una impronta artistica, forse non visibilissima, ma sempre di grande spessore qualitativo. Alcuni dei nostri lettori forse avranno avuto modo di stimare il lavoro svolto nei primi anni 2000 con la 21st Century Schizoid Band, di cui vennero gettate le basi con il progetto di “reunion della prima line-up dei King Crimson” all’indomani dell’uscita del cofanetto live “Epitaph”, formazione in cui Jakko non solo ha avuto il duro compito di incarnare lo spirito di Fripp (pur attraverso il filtro della propria personalità), impegnandosi nel progetto anima e corpo (prestando anche le proprie valenti corde vocali). Ma i meriti del chitarrista/cantante vanno valutati anche in virtù delle altre collaborazioni: Level 42, Rapid Eye Movement (con Dave Stewart e Pip Pyle), Dizrhythmia (ancora con Gavin Harrison), e The Lodge (in cui hanno figurato John Greaves degli Henry Cow e Peter Blegvad degli Slapp Happy). Ovviamente il rapporto di stima che Jakszyk si è procurato in casa Fripp ha fruttato i presupposti per un album a due, che dopo anni di lavorazione si è però esteso e trasformato in quello che oggi ascoltiamo.

Ed è proprio Jakko Jakszyk il personaggio chiave di “A Scarcity Of Miracles”, compositore molto incline a brani di ampio respiro e nei quali la componente melodica è chiamata a farla da padrona. Ecco cosa ritroviamo in questo opus: la forte presenza di una linea melodica cristallina perfettamente interpretata dalla calda voce di Jakko, innervata da inserti chitarristici talvolta complessi, talvolta più distesi (scontata la sovrabbondanza delle soundscapes frippiane), ma mai completamente fini a se stessi. L'amalgama complessiva non sempre risulta di stampo Crimsoniano pur comprendendo potenza e raffinatezza ritmica (non così invadente a dire il vero), incursioni di flauto e sax d’alta classe, anche se in tal senso il Mel Collins di oggi non è più il leone ruggente di una volta bensì una sorta di bravo interprete di quell’ambient-jazz di cui Jan Garbarek è sommo pontefice. In tal senso “The Light Of Day”, nella sua articolata ascesi, pare davvero un inedito del musicista norvegese. Non pochi sono i richiami ai due interessanti lavori cointestati a Theo Travis e Robert Fripp, “Thread” del 2009 e “Live At The Coventry Cathedral” del 2010 nei quali profonda è la fusione fra elettronica ambientale ed evocazioni fiatistiche. Il pezzo che mostra più continuità con il songbook di Jakszyk è senza ogni incertezza proprio la title-track del lavoro oggetto di questa recensione: tutto il suo mondo musicale converge completamente qui e in varia misura altrove: potenza espressiva e dolcezza impressionista. Anche “The Price We Pay” è uscita certamente dalla sua penna, avendo in sé tutte le note caratteristiche messe in luce nel suo ultimo buon album solista “The Bruised Romantic Glee Club” del 2006, nel quale guarda caso hanno attivamente partecipato Gavin Harrison e Mel Collins (mentre Fripp si era riservato solo una comparsata).

In tali rimandi risiede la vera dote dell’album: in questo suo sapersi proporre come un compendio musicale per tutti gli amanti dei King Crimson più evocativi, del Canterbury, del jazz, dell’ambient, dell’AOR più sofisticato del quale proprio Jakko Jakszyk è vero maestro e dispensatore. Per molti sarà proprio questo elemento di fruibilità il motivo di disconoscimento con la grande eredità cremisi. Ed è forse questa la ragione per la quale alla fine il disco non ha avuto il diritto e l’onore di vedere il sacro marchio ufficialmente impresso sopra: il suo richiamo nel sottotitolo è per certi versi un mero specchietto per le allodole. E’ invece “The Other Man” ad avere le maggiori caratteristiche ascrivibili ai King Crimson annata 1971, sghemba com’è nel suo procedere, con qualche passaggio addirittura in linea con le tensioni emotive del ProjeKct X coevo a “The ConstruKction Of Light” (2000) e in grado di tirare in ballo quelle ardite e intricate trame alle quali ogni appassionato di sonorità schizoidi non riesce proprio a fare a meno. Molto intense anche le tinte metafisiche di “This House”, riecheggiante alcune diafanie care all’immaginario frippiano (con una giro di basso che pare venire da “Eyes Wide Open”, suggestivo brano da “The Power To Believe” del 2003, sul quale, fra l’altro, neppure suonava Tony Levin).

Ritengo che, con i loro punti di forza e con i loro punti deboli, queste composizioni troverebbero l'ideale collocazione qualora suonate dal vivo accanto ad alcuni selezionati classici dei Seventies: in fin dei conti l’operazione offerta dalla 21st Century Schizoid Band, di cui Jakszyk era chitarrista e frontman, ha dato voce in modo credibilissimo a quel materiale che i King Crimson post-2000 non potevano proprio eseguire, tesi com’erano a dare spazio, come sempre nel loro DNA, al loro vitalissimo presente senza alcuna concessione per la rievocazione storica. Ecco oggi invece, liberi dagli esigenti fardelli che il nome King Crimson si porta sule spalle, questa nuova formazione, Fripp compreso, potrebbe esporsi in un contesto live non negazionista del proprio passato. Mica sarebbe male ascoltare una reinterpretazione di una “Islands”, di una “Ladies Of The Road”, di una “Pictures Of A City” e, fra tutte, di una “The Sailor’s Tale”. Anzi sono certo che forse solo dal vivo potremmo godere delle potenzialità di questo quintetto, per certi versi così intimamente conficcato nel tessuto crimsoniano e, per altri, così stranamente al di fuori di esso. Davvero un tour realizzerebbe il perfetto equilibrio fra potenzialità e compiutezza.

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Marco_Biasio (ha votato 6 questo disco) alle 17:44 del 18 agosto 2011 ha scritto:

Impossibile non concedere almeno un ascolto ad un songbook scritto da tre nomi del genere e con un passato, quello dei King Crimson, alle spalle. Ancora una volta, nessuna continuità con gli ultimi capitoli, anzi, un disco diametralmente opposto, per toni, esecuzione e sonorità, alle ultime prove dell'infernal sextet frippiano. L'ho trovato onestamente un po' privo di mordente. Belle atmosfere, ma tutte piallate su un orizzonte di arpeggi liquidi, costruzioni rarefatte, interventi jazz, voce e sax. Molto di ciascun singolo, poco di gruppo. "The Light Of Day" è interminabile, ma i giochi di dissonanze che si rincorrono al suo interno sono riusciti. Belle la title-track e "The Price We Pay". Il resto è gradevole, ma alla lunga troppo stucchevole. Musica eccessivamente accademica, eccessivamente "rilassata". Avrei preferito qualche "paesaggio" in meno e qualche irregolarità in più. Un po' di follia anarchica alla Crimson, per dirla compiutamente, che qui non ho rintracciato se non molto sporadicamente.