John Roberts
Glass Eights
Ci sono dischi che non hanno bisogno di tante parole. Definire con precisione certosina le coordinate stilistiche, sviluppare una fitta ragnatela di riferimenti artistici, circoscriverne la collocazione storica: a volte tutto ciò è assolutamente superfluo. In certi casi è più opportuno che sia la musica a presentarsi da sola, senza aiuti o suggerimenti, esprimendo in libertà il corredo di sensazioni che si porta dietro.
L'album d'esordio di John Roberts si insedia in un terreno sempre fertile, la ambient, e lo popola di raffinate impalcature house. Una combinazione che spesso ricorda il misterioso, enigmatico Arandel (per inciso, uno dei capolavori di quest'anno), rimanendo però a debita distanza dallo spiccato minimalismo di In D.
Glass Eights mantiene dunque carattere e consistenza. Mentre la cassa in quattro scandisce autorevolmente il tempo, si aprono tutte le atmosfere del disco: gocciolanti strade cittadine attraversate nella notte (Lesser), malinconiche immersioni subacquee a temperature polari (Ever Or Not), visioni rarefatte riflesse su cristalli luccicanti (Interlude), viaggi stellari su mezzi futuristici dalle pareti bianche (Porcelain), tristi e dolorosi distacchi dalla persona amata, senza certezza su quando la rivedrai (Went). Dietro ogni traccia, una faticosa operazione di ricerca dei suoni, tra legni, vetri, corde, tastiere e versi sintetici di ogni tipo. E delle radici che vanno molto lontano, fino alla kosmische musik degli anni '70.
Musica per la mente, si diceva una ventina d'anni fa. Un bisogno sempre attuale, di fronte alla freneticità trafficata dei tempi moderni. Glass Eights è puro ossigeno per i nostri polmoni fin troppo ambientati all'aria metropolitana.
Tweet