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R Recensione

8/10

Tim Hecker

Virgins

Tim Hecker è un po' il Brian Eno dei giorni nostri. Anche lui, come Dustin Hoffmann per Luca Carboni, non sbaglia un disco neanche a pagarlo: anzi, ogni volta sembra aggiustare la mira e avvicinarsi sempre più alla propria idea di musica, che credo sia tesa a trasformare l'ambient nel suono della nostra anima.

La colonna sonora dei nostri tribolati percorsi interiori: disturbata, come un rumore sinistro e cacofonico distillato da un cervello inquieto, eppure sempre più vicina all'agognata redenzione.

Giunto alla soglia dei quaranta, il canadese non ha perso nulla della propria superlativa capacità immaginifica: la sua arte è sempre visiva, quasi concreta, tangibile. Possiede una solennità religiosa che però non va discapito della sua prorompente umanità: Tim Hecker è il fratello spirituale del geniale chitarrista austriaco Fennesz, perché trasforma l'errore, il rumore, il crepitio, o una semplice nota ripetuta all'infinito, in Poesia. Aggiungiamoci il tocco sapiente di Ben Frost, produttore cui dovrei dedicare un monumento visto che mette lo zampino in quasi tutti i dischi che mi fanno sbavare, e il quadro appare chiarissimo.

Harmony in Ultraviolet” aveva rivelato al mondo il suo talento cristallino e visionario, quasi tambureggiante tanto era gravido di idee. Ancora aggressivo e spurio, ma già carico come un acido lisergico.

La sua era musica sinistra per cuori irrequieti che però possiedono ancora la scintilla, l'amore per la vita. “Ravedeath, 1972” scovava l'ambientazione ideale per il suo universo allucinato: l'Islanda, il 1972, e vi sfido a immaginare qualcosa di più distante, asettico, indecifrabile. L'Islanda è il satellite inanimato dell'universo umanità, eppure Tim ha individuato in quei paesaggi silenziosi e desolati, in quelle giornate che non terminano mai, un candore purissimo, un'essenza limpida.

Virgins” cambia rotta: Tim questa volta sceglie di irrobustire le tessiture sonore attingendo alle fonti più disparate. Niente più pozze di note solitarie che vagano alla periferia del mondo, ma affreschi veri e propri, che raccontano a modo loro una storia, e non si limitano a ondeggiare nel buio: Tim si colloca allora a metà strada fra il compositore d'avanguardia francese Sylvain Chauveau, Eno e Fennesz.

A partire dalla conclusiva “Stab Variation”: sei minuti e mezzo di sinfonia futurista, in cui la tastiera si impenna in volute inquietanti mentre un ago sembra perforare la superficie di un diamante cavandone suoni che sono un arcobaleno iridescente. Brano maestoso ma che evita di strafare, di indulgere dentro la propria maestosità: si limita a rappresentarla, e per questo risulta toccante.

Prism” rivela le ambizioni architettoniche, ancorché minimali, sin dal titolo: e in effetti quelle bordate di rumore assomigliano a folate di vento gelido, creano una confusione calibratissima che lentamente si divora il tema di base, elementare ma luminoso.

La musica per Hecker deve essere un sistema efficace per dare forma ai fantasmi acquattati fra i suoi neuroni: “Virginal I” è un brano per pianoforte classico nelle strutture, che ruota attorno a sei note introducendo piccole ma decisive variazioni. In mezzo a tanto caos, un po' di quiete, di linearità, una forma ben disegnata: inutile dire che siamo davanti alla classica ciliegina sulla torta (qui il peso di Chauveau diventa determinante).

Live Room” corre sul filo del rasoio lasciato incustodito dalla musica industriale, con le sue percussioni (apparentemente) senza una direzione, le note “allargate” sino allo spasmo, i gorgheggi sinistri. Qui siamo veramente dalle parti di una “Endless Summer”, perché Hecker cava dal rumore più insensato una luce innaturale e bellissima. “Live Room Out” è il degno epilogo: più cupa e minimale, dà voce a una agonia lenta ma serena. “Virginal II”, quasi una drone music progressiva che si apre in un crescendo intenso, non è da meno.

Ambient deviata e deforme, ecco cos'è “Virgins”. Ed ecco perché praticamente non perde mai colpi, conservando l'ispirazione intatta come fosse il Sacro Graal.

Ce l'hai fatta ancora, Hecker, e non è più una sorpresa: “Virgins” finisce diritto fra i dischi dell'anno, concedetegli tutti una chance, se ancora non l'avete fatto.

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Voto degli utenti: 6,1/10 in media su 5 voti.
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REBBY 5,5/10
motek 5/10

C Commenti

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hiperwlt alle 12:08 del 16 dicembre 2013 ha scritto:

Grande analisi, Francesco. Questo ispessimento evocativo, paradossalmente, non ha generato in me la stessa intensità visiva di "Ravedeath, 1972". Ma un solo ascolto, per dischi così astratti e concettuali, non è sufficiente: e Tim Hecker merita un ulteriore approfondimento. Ripasso.

Cas alle 20:54 del 17 dicembre 2013 ha scritto:

sono al secondo ascolto e mi sembra un lavoro affascinantissimo. Tim Hecker d'altronde è una garanzia...